La gestione patrimoniale degli enti filantropici
L'inserimento nel Codice del Terzo Settore degli enti filantropici è un indicatore della presenza nel nostro Paese di organizzazioni che perseguono i loro fini erogando risorse agli altri enti non profit e nel contempo della volontà di favorire lo sviluppo di una modalità di perseguire obiettivi di utilità sociale che fino a pochi decenni fa era sostanzialmente sconosciuta
di Bernardino Casadei*
3' di lettura
L'inserimento nel Codice del Terzo Settore degli enti filantropici è un indicatore della presenza nel nostro Paese di organizzazioni che perseguono i loro fini erogando risorse agli altri enti non profit e nel contempo della volontà di favorire lo sviluppo di una modalità di perseguire obiettivi di utilità sociale che fino a pochi decenni fa era sostanzialmente sconosciuta. A fine anni ‘90 erano molti ad affermare che gli enti d'erogazione non potessero diventare onlus.
Per poter erogare risorse è necessario averle, e uno dei modi per conseguire questo risultato consiste nel dotarsi di un patrimonio che possa generare delle rendite con cui finanziare tali attività. Benché a prima vista il problema principale potrebbe sembrare quello legato alla costituzione di un simile patrimonio, le vere difficoltà nascono dalla gestione dello stesso. La scarsa cultura finanziaria che caratterizza il nostro Paese non facilita lo sviluppo di strategie adeguate, e non è raro che i risultati siano spesso inadeguati. Un'analisi degli enti filantropici mostrerebbe come, in patente contrasto con quanto stabilito dai propri statuti, la maggior parte non è riuscita a conservare il valore reale del proprio capitale.
A prima vista il problema non dovrebbe essere così difficile. Se si considera che il Paese che ha il maggior numero di fondazioni filantropiche, che ha la più lunga esperienza nella gestione di fondi il cui capitale è essenzialmente di natura finanziaria e che ha ottenuto i migliori risultati sono senza dubbio gli Stati Uniti, basterebbe copiare quello che fanno dall'altra parte dell'Atlantico per conseguire il risultato desiderato. Operazione questa che dovrebbe essere abbastanza semplice, tenuto conto che se c'è un mercato globalizzato questo è senz'altro il mercato della finanza.
Ciò però non è avvenuto, e mentre negli Stati Unito è quasi impossibile trovare una fondazione che investa meno del 70% del proprio capitale in strumenti azionari, in Italia domina ancora l'idea che sia opportuno investire la gran parte del proprio patrimonio, se non addirittura la sua totalità, in obbligazioni, le quali sarebbero più “sicure”. Ora su questo termine occorre intendersi in quanto, se è vero in caso di fallimenti, per fortuna piuttosto rari, chi ha acquistato azioni perde tutto, anche chi ha investito in obbligazioni difficilmente potrà recuperare il proprio capitale.
Anche sul rischio di mercato è opportuno fare dei distinguo. Se infatti l'azionario è tendenzialmente più volatile dell'obbligazionario, proprio i dati dello scorso anno dimostrano come anche quest'ultimo può subire perdite a doppia cifra, con la sola differenza che, mentre i tempi di recupero dell'azionario possono essere relativamente rapidi, quelli dell'obbligazionario sono, di norma, molto più lunghi. Ho potuto constatare come l'anno scorso il risultato delle strategie di fondi filantropici che puntavano essenzialmente sull'azionario hanno avuto perdite analoghe se non inferiori a quelli che puntavano sull'obbligazionario, ma mentre questi ultimi nei primi sei mesi di quest'anno hanno recuperato il 20-30% della perdita accumulata nel 2022, i primi hanno recuperato oltre il 50%.
Proprio questi dati mostrano come non vi siano scelte privi di rischi. Si tratta, in ultima analisi, di scegliere se, per erogare di più, si è disponibili ad accettare perdite temporanee, anche rilevanti, o se invece si preferisce ridurre il rischio di tali perdite temporanee, anche se ciò significa erogare di meno e, a volte, non riuscire a conservare il valore reale del proprio capitale. Naturalmente, nel primo caso bisognerà strutturarsi per gestire tali perdere temporanee, ma ciò non è impossibile.
Al di là di scelte tattiche dovute a ragioni congiunturali, bisogna decidere se si vuole seguire il modello americano o si preferisce adeguarsi a quello italiano, nella consapevolezza che, benché da più di un secolo il modello americano sia stato molto più performante, non possiamo sapere se ciò varrà anche per il futuro.
*Presidente Associazione promotori del dono
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