La giustizia tributaria rischia una duplice dipendenza culturale
La temporanea battuta di arresto subita dalla riforma della giustizia tributaria, perché consegnata al veicolo di un decreto-legge di cui non si sono trovati i presupposti, ha messo in luce il secondo corno del dilemma dell’efficienza, che riguarda la cultura giudiziale a cui si vuole affidare la materia dei tributi
di Gaetano Ragucci
3' di lettura
La temporanea battuta di arresto subita dalla riforma della giustizia tributaria, perché consegnata al veicolo di un decreto-legge di cui non si sono trovati i presupposti, ha messo in luce il secondo corno del dilemma dell’efficienza, che riguarda la cultura giudiziale a cui si vuole affidare la materia dei tributi.
La giurisprudenza è il risultato di una serie di fattori su cui una riforma è destinata a incidere con effetti permanenti sull’assetto dell’ordinamento. A plasmarla concorrono le competenze che il sistema attrae definendo i titoli professionali dei nuovi giudici; il senso di appartenenza che nasce dalla comune pratica giurisdizionale; il progresso, individuale e della categoria, prodotto dal concorso alla soluzione dei problemi di un ordinamento in evoluzione.
Da questi punti di vista, tra le anticipazioni sul contenuto di uno schema di decreto ancora riservato, due assumono rilievo, ma in senso purtroppo negativo.
La prima riguarda la preclusione ai nuovi giudici dell’accesso a una sezione tributaria specializzata della Corte di Cassazione istituita per legge, in ordine alla quale pare che l’apertura dei tecnici del Mef abbia incontrato l’opposizione del ministero della giustizia. Si prepara dunque un giudice tributario che non concorrerà a garantire l’interpretazione uniforme della legge, e che non parteciperà alla definizione degli orientamenti giurisprudenziali, e alla soluzione delle questioni di particolare rilevanza, su cui di norma decidono le sezioni della Corte. Per evitare la costituzione di una categoria di giudici esposta al rischio della marginalizzazione e dell’autoreferenzialità, si cade perciò nell’eccesso opposto, negandole l’integrazione al vertice con le altre componenti della magistratura. Sarebbe allora preferibile la soluzione proposta dalla Commissione della Cananea, che riservava la Presidenza e la maggioranza dei componenti della sezione tributaria a magistrati di cassazione, consentendovi però l’accesso anche ai giudici tributari valutati positivamente dal Csm.
La seconda anticipazione riguarda la conservazione della dipendenza dal Mef sancita dal D.lgs. n. 545/1992, di cui sembra che siano state preparate modifiche marginali, la più importante delle quali riguarderà il trattamento economico dei giudici tributari, destinati, sotto questo aspetto, a essere equiparati a quelli ordinari. Si può essere d’accordo con chi afferma che, così, la questione della dipendenza dal ministero sarebbe ridimensionata (Giovanardi), ma è innegabile che il mantenimento sotto altri profili dello status quo potrà sottoporre i nuovi giudici, già sminuiti dal diniego all’accesso alla funzione nomofilattica, a gravi ipoteche. Si pensi alla vigilanza sul loro operato, all’aggiornamento professionale, alla rilevazione delle questioni di interesse (o alla tenuta del Massimario, almeno finché non avrà trovato attuazione il progetto di open access del Cpgt): tutti compiti ancora affidati al Mef.
Ferma la speranza che le riserve ora espresse si rivelino infondate, la convergenza di questi due fattori di conservazione fa temere che dalla riforma prenda vita una magistratura “minore”, che potrà essere più efficiente e meglio remunerata, ma sarà anche esposta al rischio di una duplice dipendenza culturale, che fa dubitare della possibilità di un reale progresso del diritto tributario.
Questo è il momento di confidare nel Parlamento, e in un’opera rapida e responsabile delle commissioni Giustizia e Finanze del Senato, che hanno fin qui raccolto elementi di conoscenza sufficienti per intervenire su questi aspetti della riforma. L’auspicio è che, quando sarà il momento, e quale che ne sia la forma, anche per essi il Legislatore sappia conformarsi a un canone di razionalità costituzionale, che, secondo i moniti della Corte, è sintesi dei principi di efficienza e buon andamento dell’amministrazione, ma anche dell’autonomia e indipendenza della magistratura. La Costituzione è l’antidoto a un fiscalismo sempre pronto a rinascere e a dissimularsi sotto altri obiettivi solo in apparenza nuovi (De Mita): un atteggiamento che oggi ci pone avanti a una scelta tra efficienza e cultura giuridica, e di fronte al cui dilagare una magistratura “minore” potrà fare poco, o nulla.
Università degli Studi di Milano; presidente Anti
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