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La guerra in Ucraina è un potente focolaio di instabilità geo-politica ed energetica, tecno-manifatturiera e finanziaria. La pandemia ha già provocato nel codice genetico della globalizzazione alcune mutazioni che, adesso, potrebbero sperimentare evoluzioni più marcate e meno reversibili. Negli ultimi due anni le catene globali del valore sono già diventate più sfilacciate e meno compatte. Le reti di fornitura e di approvvigionamento sono già state rese più corte e meno efficienti perché più onerose. I mercati finali hanno già sperimentato un ridimensionamento con una loro calibratura più regionale.
Nella gerarchia geo-economica si è già verificata l’avanzata di una Cina che – se ha bisogno di stabilità per sviluppare il suo mercato interno e per raggiungere il suo breakeven naturale al 7% del GDP – ha comunque una strutturale posizione di ascesa nelle Global Value Chains, delle cui componenti più nobili e redditizie controlla quote crescenti.
La guerra ha obbligato Volkswagen e Bmw ad interrompere i loro cicli di produzione e di fornitura in Ucraina, dove si realizzavano i cablaggi di diversi modelli (ogni auto ha, in media, 5 km di cavi al suo interno). Audi sta premendo sui suoi fornitori che a loro volta lavorano con fornitori di secondo livello, perché ne trovino altri nell’Europa dell’Est e nel Nord Africa. L’invasione in Ucraina potrebbe, intanto, rendere ancora più acuta la crisi dei chip, sorta in pandemia. La metà del neon mondiale per semiconduttori arriva dall’Ucraina e dalla Russia.
Non è soltanto un tema di auto e di microprocessori. In ogni settore le imprese della manifattura europea e italiana seguono il dettato del trauma della guerra. Ma le loro scelte particolari di oggi si inseriscono in un generale quadro di riassetto che ha introdotto il tema del re-shoring. Secondo l’analisi di Met, esiste un primo slittamento fra le aziende più internazionalizzate.
Il conflitto in Ucraina può accelerare i meccanismi di evoluzione della globalizzazione che si sono attivati venti anni fa, quando la Cina ha smesso di accettare una posizione “servile” nei confronti dell’Occidente manifatturiero e ha iniziato a sviluppare una strategia di politica industriale autonoma e aggressiva. Il punto è quello che potrebbe capitare se la Russia allacciasse legami politici e militari economici, finanziari e monetari con, di nuovo, la Cina. Soprattutto per via delle sue riserve energetiche e minerarie.
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