La gratitudine figlia della libertà
Non c’è sentimento più arduo e imbarazzante della gratitudine. Sempre legata a un qualche episodio, a un contegno altrui riuscito per noi utile o vantaggioso, a una situazione difficile, che ci vide volgerci al vicino, al compagno di banco, e domandargli e riceverne soccorso
di Natalino Irti
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Non c’è sentimento più arduo e imbarazzante della gratitudine. Sempre legata a un qualche episodio, a un contegno altrui riuscito per noi utile o vantaggioso, a una situazione difficile, che ci vide volgerci al vicino, al compagno di banco, e domandargli e riceverne soccorso.
Fu necessario considerare gli “altri”, e metterli sul conto della nostra vita: un debito di cortesia, di aiuto, di agevolante disponibilità, o, in casi rari ed estremi, di pericolosa complicità. Quel debito ci sta dentro, e non si lascia dimenticare: pure vorremmo cancellarlo, discacciarlo dalla memoria, e seppellirlo per sempre insieme con i ricordi più urtanti e asprigni. Ma basta un nulla, ed esso ci riappare con una limpidezza, che diremmo pervicace e impietosa. Un banco di scuola, un esame di terza liceo, un compito occhieggiato e copiato, una prova scritta di concorso: e, insomma, tutte le occasioni, in cui lo sguardo e la parola bussarono alla porta altrui.
Ed essa, quando non si chiuse con piglio altezzoso o rudezza di rifiuto, si aprì verso di noi: ed oggi ci sembra che ne fummo accolti con malagrazia e sussiego, e quasi imprimendo una subdola ferita nel nostro prostrato orgoglio. E c’è poi lo scrupolo del “contraccambio”, che da antichi e venerati filosofi si congiunse, per modo di esatta giustizia, al sentimento della gratitudine. Ma qui si vuole introdurre una misura di corrispettività, di scambio di favori o cortesie, un ricevere e un dare, che sembra lontano ed estraneo alla sensibilità morale.
La quale è soprattutto nella “riconoscenza”, cioè nell’accettare, dentro di sé e in confronto con altri, la realtà di quel tal episodio e di conservarne gelosa e accurata memoria. Nel “riconoscere” è l’autentico contraccambio, lo spirituale corrispettivo di ciò che fu dato o compiuto in nostro vantaggio. Il riconoscere è proprio di animi nobili e forti: nobili, per memoria dei beneficî ricevuti; forti, nel sentire l’operosa continuità della vita, che è trama di incontri e di solidali vicinanze. E capaci anche di tollerare la superba pretesa alla gratitudine.
Ed anzi la varietà e misura delle “riconoscenze” è indice di serietà e ricchezza spirituale. Allora la gratitudine non fa paura, non turba e intristisce, ma eccita e riempie la nostra sensibilità. Segno di forza interiore e di fecondo gusto del vivere. Così, intorno a ciascuno di noi, si costruisce un’ideale cerchia di umanità, che nessuno può cancellare e sopprimere. Incontri ariosi, dialoghi aperti e confidenti, un ricevere e dare freschi nella loro nativa spontaneità. La gratitudine vi sta come cerniera, come vincolo reciproco, che non lascia disperdere gli incontri, ma li tiene insieme in una sorta di cappella interiore, dove si celebrano riti di umana coralità.
Ben vero che talora si intrecciano rapporti di complicità, di fratellanza istituzionale, di oscura reciprocità. Allora non è a parlare di gratitudine, sentimento di uomini liberi, sciolti da doveri di casta o di consorteria. Qui il vicendevole e statutario soccorso trova radice in vincoli di appartenenza, di milizia laica o religiosa, di comunanza di interessi o di affari. È in gioco l’espulsione o la sospensione, la reputazione individuale o famigliare, lo stare da una parte o dall’altra: è dei “nostri” o non è dei “nostri”. Premî e pene rientrano nella logica propria di questi speciali (e talora criminali) ordinamenti.
Altro è il terreno della gratitudine, che indica una società di uomini liberi, i quali, nel domandare e ricevere, nel donare e nell’attendersi un moto riconoscente dell’animo, interrogano, non tavole statutarie o torbide intese, ma la loro coscienza. E ne ascoltano le parole e i moniti.
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