«La gratitudine, sentimento necessario»
di Nicoletta Polla Matiot
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«Mi piace pensare che si debba ringraziare subito. Non aspettare anni per rendersi conto, a posteriori, di quanto una persona è stata importante. Spesso non lo si fa per superficialità o per snobismo. Saper essere immediatamente riconoscenti di quello che si riceve ed esplicitarlo: questo è un buon restituire. La gratitudine è un sentimento necessario». Parla sottovoce Beatrice Trussardi, sfumando il tono delle parole, non troppo convinta di mandarle avanti da sole, sembra quasi le accarezzi prima di lasciarle andare, che le voglia trattenere ancora un po’, come se potessero diventare subito qualcos’altro, se non accompagnate. «Non mi piace esagerare, mai».
Negli uffici della Fondazione Nicola Trussardi, in piazza Duse a Milano, c’è una luce forte. Ampie finestre, pareti bianche e un riverbero inconsueto per una giornata di pioggia. «Non vorrei sembrare alla notte degli Oscar» – dice con un mezzo sorriso. E per la seconda volta, inizia un’affermazione con un non – «ma il primo grazie è per mio marito (Federico Roveda, ndr) perché mi sopporta, anzi mi supporta per come sono. Non la classica donna che si sveglia la mattina, prepara la colazione – però la colazione la preparo davvero! – si divide fra lavoro e casa, secondo ritmi magari frenetici, ma prevedibili. Io sono molto presente in famiglia e con i miei figli, non incarno il modello di manager sempre in viaggio, ma non so mai la sera prima che cosa farò esattamente. Guardo l’agenda la mattina quando mi sveglio e la seguo. Faccio quel che mi piace e che mi interessa, ho questa fortuna, che purtroppo è ancora una rarità per la maggioranza delle donne. Mio marito mi ha sempre lasciato seguire tanti interessi diversi, mi ha affiancato nelle aperture, nelle trasformazioni, nei mutamenti».
Presidente della Fondazione intitolata al padre, l’arte è stata il filo conduttore di tutta una vita professionale, ma con continui cambiamenti di ruoli e responsabilità, anche all’interno dell’azienda di famiglia, nata oltre cent’anni fa. Dalla morte di Nicola Trussardi, nel 1999, e fino al 2014, ha ricoperto vari incarichi all’interno del gruppo, compresi quelli di presidente e amministratore delegato. L’anno scorso ha ceduto al fratello Tomaso, ad dell’azienda, il 25 per cento della sua quota societaria, uscendo dalla parte moda, restando ceo della parte immobiliare, e ora si dedica completamente alla Fondazione. «Ne sono presidente dal 2003 e da allora credo abbiamo fatto qualcosa di abbastanza eccellente». C’è, in questa specie di ossimoro, l’ostinata attenuazione di ogni asperità e di ogni affermazione sopra le righe. Impossibile farle dire qualcosa di politicamente scorretto.
Eppure le mostre che produce e i progetti che segue lo sono, a cominciare dall’ultima, «La Terra inquieta», appena inaugurata alla Triennale di Milano. «Una mostra necessaria, che passa un messaggio non buonista e non pietista», dice secca. «Colpisce facendo immedesimare e pensare in modo diverso». Discrezione e determinazione in parti uguali. C’è una ferrea delicatezza in quest’aspetto quasi diafano, capelli biondi perfetti, pelle chiara, mani curate, pochi gesti (ovviamente) misuratissimi. Oggi indossa una rigorosa camicia grigia, un maglioncino lilla (a proposito, veste sempre Trussardi? Risponde con una domanda: «È una provocazione? Mi chiamo così, sono nata vestita Trussardi»). Sotto i pantaloni maschili s’intravedono un paio di calze a grandi pois viola e degli imprevedibili stivaletti argento. Mi viene in mente quello che Hitchcock diceva di Grace, «ghiaccio bollente». Ma la discrezione paga sempre? «Assolutamente no» risponde lasciandosi sfuggire il primo tono enfatico di tutta l’intervista. «Però uno è come è. Io non recito, mi piace essere quel che sono».
La naturalezza matura dell’understatement ha sostituito la ritrosia dei timidi. Ricordo la prima volta che ci siamo incontrate: era il 2002, aveva acconsentito, a fatica, a un’intervista pubblica in Galleria Vittorio Emanuele a Milano durante la settimana della moda. Sul palco era insieme al fratello Francesco. Erano quindici anni, una vita e molto dolore fa. «Il modo in cui si reagisce alle crisi, che siano personali che siano economiche, sociali o familiari, credo sia estremamente soggettivo. Ciascuno attinge alla sua indole, alla sua formazione, alle sue risorse. Ma c’è qualcosa che vale per tutti: le fratture vanno affrontate, la perdita, le sconfitte vanno attraversati. Non si può rimuoverli, non si può soffocarli o cercare di distrarsi, scegliere l’ottundimento per non pensare. Una rottura è un passaggio, e i passaggi sono inevitabili. La capacità di reazione viene dopo, prima bisogna attraversare».
Sta parlando della mostra in Triennale, curata da Massimiliano Gioni, che affronta un tema duro e ineludibile, il fenomeno migratorio, la coesistenza di culture diverse, la crisi dei rifugiati, l’emergenza degli sbarchi che è cronaca quotidiana sulle nostre coste – ma non si può far a meno di sentir risuonare anche le vicende personali. Quel contrappunto di fortuna e tragedia, privilegio, bellezza e fatalità che ha segnato la storia della sua famiglia, con i due incidenti. Prima il padre, poi il fratello maggiore. «C’è un bellissimo disegno che mi aveva fatto, tempo fa, un mio mentore, John Maeda: una persona in cima a un picco o uno scoglio, che cade in acqua, rimane sott’acqua e poi si ri-arrampica su quel picco, e ricomincia il ciclo. La vita di ciascuno attraversa queste fasi diverse, sono tappe e bisogna passare più volte attraverso tutte e quattro».
Torniamo, per un attimo, alla mostra e al suo racconto delle grandi trasformazioni della Storia contemporanea e dei “passaggi” individuali. «La Terra Inquieta» prende a prestito il titolo dallo scrittore caraibico Édouard Glissant, è un racconto polifonico (più di sessanta artisti da oltre quaranta Paesi del mondo – tra cui Albania, Algeria, Bangladesh, Egitto, Ghana, Iraq, Libano, Marocco, Siria e Turchia): opere spiazzanti, inquietanti, di denuncia, ma anche opere di grandissima poesia. «L’arte dà la possibilità di pensare ad un nuovo mondo. A un mondo migliore possibile. Ma non è affatto consolatoria. D’altronde, quel campanellino, che mi ha fatto capire che volevo occuparmi di valorizzare il contemporaneo, in me è nato proprio quando anch’io sono stata un’emigrante. Avevo sempre amato l’arte, fin da ragazza. Ma solo quando sono stata negli Stati Uniti ho capito che era esattamente quello che volevo fare». A New York studia Contemporary Art Business and Administration e collabora con alcuni musei importanti come il Guggenheim, il Metropolitan e il Museum of Modern Art.
Quando torna in Italia, dà la sua impronta alla Fondazione, la fa uscire dalla sua sede e la trasforma in un museo nomade. «Non abbiamo una casa fissa. Anche noi migriamo. Andiamo a cercare nella città di Milano gli spazi spesso inaccessibili e dimenticati e ci spostiamo a seconda dei progetti». Ha riaperto l’Albergo diurno con Sarah Lucas (durante il XXI Miart), ha fatto germogliare un campo di grano al centro di Porta Nuova con Agnes Denes (durante l’Expo), ha anticipato l’accesso agli spazi del futuro museo etrusco con Paul Cocksedge (all’ultimo Salone del mobile) per citare solo gli interventi più recenti. Non si tratta semplicemente di organizzare grandi mostre, ma di produzione e committenza. «Le opere vengono poi lasciate all’artista ed è lui che decide che cosa farne». Nel suo profilo Twitter («Non l’ho messo subito. È difficile super sintetizzare quello che uno vuole comunicare di sé») si descrive come imprenditrice culturale, attivista per i diritti umani, l’ambiente, la valorizzazione dei talenti, moglie e madre. In quest’ordine. «Che altro potrei aggiungere?». L’elenco delle altre cariche, per esempio. Beatrice fa parte del Board Internazionale del Comitato Women in Diplomacy, è membro del Women’s Leadership Board della JFK School of Government presso l’Università di Harvard, è membro del consiglio di amministrazione del MAXXI, membro del Cda del Comitato Fondazioni Italiane Arte Contemporanea, è presidente di Amici di Aspen, membro del Comitato esecutivo di Volta… «Sì, faccio quello che mi piace, troppe volte mi sono trovata in riunioni in cui ero l’unica donna al tavolo. Ma non mi sento a disagio, a volte mi fa quasi sorridere. Però il tetto di cristallo è ancora una realtà». Che cosa manca ancora? «L’ultimo grazie. A mio padre. Per tante, tantissime cose, ma soprattutto per l’insegnamento più importante: seguire le proprie inclinazioni, ovunque esse portino. Anche molto lontano da dove sei partito».
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