Storia

La guerra che fu, e oggi l’Europa

di Roberto Casati

. Truppe italiane si muovono su una strada lungo l’Isonzo, durante la prima guerra mondiale

4' di lettura

Quando mio nonno Enrico, classe 1887, morì nel 1975, l’Esercito mandò un picchetto d’onore che dispose la bara coperta da una bandiera su due cavalletti nel giardino di casa. Sei soldati fecero ala, puntarono i fucili in aria, e un capitano gridò forte il suo nome prima di ordinare di fare fuoco. Ho ancora in testa il rimbombo della salva. Un secolo fa, giorno per giorno, il 29 agosto del 1917, mio nonno venne ferito nella battaglia della Bainsizza. Il certificato medico stilato alla visita collegiale del 1922 racconta di «costituzione buona, ben nutrito, poco sanguificato... pannicolo adiposo – conservato, muscolatura regolare». «Tenente del 18° Regg. Fanteria, figlio di fu Pompeo, nato il 10/1/187 a Olgiate Molgora = Distretto di Monza = di professione Impiegato. Ferito il 29/8/1917 sulla Bainsizza da strappnell (sic) al torace, fu ricoverato per due mesi, ultimo Milano (Sacro Cuore) ottenne vari periodi di convalescenza fino al Luglio 1919. Poi fu sempre inabile alle fatiche di guerra. Congedato il 5/8/1919>. Si registra «piccola cicatrice alla regione sottoclaveare sinistra, scorrevole (foro entrata); altra simile alla regione interscapolare sinistra (foro uscita)... postumi di f.a.f. trasfossa all’emitorace sinistro senza reliquati degni di nota. Immune da malattie tubercolari. Prognosi = Guarito».

Il referto contraddice la narrazione tramandata in famiglia, stando alla quale il nonno avrebbe visto il proiettile uscire dal petto e cadergli in mano (il foro d’uscita è tra le scapole). Anche l’altra narrazione («il cecchino austriaco») non regge. Ci veniva proposta la seguente storia edificante. Tre commilitoni si concedono una sigaretta nella notte; quando il primo accende il fiammifero attrae l’attenzione del cecchino, che punta il fucile vedendo brillare la brace del secondo, e prende poi bene la mira alla prima boccata dell’incauto e sfortunato terzo. Nel nostro caso la regola del tre non si applica perché non di pallottola si trattava ma di scheggia di una bomba a frammentazione (shrapnel, mal compitata nel referto.)

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Di ferita grave certo si tratta, e comunque un altro documento, datato 31 ottobre 1917, e firmato a Chieti da un colonnello di cui non si decifra il nome, autorizza il nonno «a fregiarsi del distintivo d’onore istituito con la circolare n. 134 del Giornale Militare 1917». In questo foglio apprendiamo che la ferita viene riportata a Tolmino. Molti anni dopo, e a seguito di un grave incidente stradale che lo rese parzialmente inabile, mio nonno decise di avvalersi del diritto alla pensione di guerra e aprì una pratica che generò altri documenti, tra cui uno che porta la data del 9 maggio 1961. in questo il luogo del ferimento è «Leopa sulla Bainsizza» (oggi Pieve di Leupa) e mio nonno ha il grado di 1° capitano.

Ci sono quindi alcune incertezze interpretative, ma si tratta comunque dell’undicesima offensiva, magistralmente descritta da Mark Thompson ne La guerra bianca: di lì a poco gli incompetenti generali dell’esercito regio, confusi dalla ritirata tattica degli austriaci, inebriati dalla conquista del Monte Santo, drogati dalle balle propagandistiche di Luigi Barzini e di Gabriele D’Annunzio principe di Montenevoso, si ritrovarono in un cul-de-sac mortifero che fu il preludio di Caporetto. La vittoria tattica, seguita dalla sconfitta nella Dodicesima Battaglia, è una riga e una cartina nei libri di storia; e se anche sappiamo quali furono i suoi costi umani, e a chi attribuirne le responsabilità, non viene mai cantata abbastanza la sofferenza degli individui.

Abbiamo buone ragioni di sapere perché l’Enrico Casati se la cavò, in una battaglia in cui la sciatteria militare di Cadorna aveva condannato a morte almeno trentamila commilitoni: il nonno era un ufficiale. E oggi voglio celebrare la vita, non la morte: mio nonno ebbe sei figli. Dalla sua sopravvivenza alla Bainsizza è dipesa la vita, a oggi, di esattamente trenta persone, includendo nipoti e pronipoti, che non sarebbero esistite se quel proiettile avesse seguito un percorso un po’ più basso, o se lui non fosse stato un tenente.

Questo episodio famigliare, enorme e vitale nel contesto delle mura di casa, insignificante di fronte al quarto di milione di morti e feriti dell’Undicesima battaglia, da ambo le parti, mi serve per dire qualcosa di molto generale. Resta un’eco, a un secolo di distanza, dell’esplosione che quasi costò la vita al nonno? Delle grida dei suoi compagni e dei ragazzi che erano al di là della frontiera austriaca, dei feriti, degli agonizzanti? Tolmin è oggi una meta turistica per gli amanti del kayak, e io leggo ogni giorno, ogni giorno, di una presa di posizione di un politico, di un giornalista, di un intellettuale, di un tribuno che critica l’Europa: perché è eccessivamente burocratica, perché non risolve i veri problemi della gente, perché non sa difendere le sue frontiere, o invece perché ha delle frontiere troppo aperte, perché perde la sua identità, perché non è terra di accoglienza, perché impone le quote del latte e l’euro, perché è un’idea astratta, perché non scalda il cuore, perché viene imposta ai popoli, o perché invece alcuni popoli/Stati ne approfittano, e via dicendo. E ogni volta che leggo una di queste cose, e innumerevoli altre, vedo la scheggia uscire sotto la scapola dell’Enrico e rimetto le cose in prospettiva.
Noi in Slovenia andiamo a fare kayak, non a cercare di macellare degli austro-ungarici. E se ci andiamo dobbiamo pensare che non siamo costretti a scavarci una trincea e sperare nella benevolenza del caso che fu gentile con l’Enrico; non esplodono ogni giorno migliaia di bombe sull’Isonzo, e ne sappiamo il perché: perché ci sono complesse e burocratiche istituzioni che creano infiniti legami di pace, camere di compensazione per assorbire conflitti, tavoli di trattative per affrontare problemi di ogni tipo, incluse le quote del latte. Affrontarli e risolverli se si riesce, e se non ci riesce tentare da un’altra parte, ricominciando da capo. Non tutto funziona bene in Europa, ma non tutto funziona bene da nessuna parte, non esistono utopie realizzate. Da qualche parte bisogna cominciare a costruire, e non si costruisce nulla se si devono invece scavare trincee e sperare, sperare che il proiettile a noi destinato ci risparmierà.

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