A colloquio con Paweł Pawlikowski

La Guerra fredda dell’amore

di Cristina Battocletti

4' di lettura

«Non si tratta di nostalgia», piuttosto del consolidamento delle radici e di una liberazione dal passato. Paweł Pawlikowski dopo Ida, vincitore dell’Oscar come miglior film straniero nel 2015, torna ad ambientare in Polonia il nuovo film, Cold War, nelle sale dal 20 dicembre. Una storia d’amore scellerata tra Wiktor (Tomasz Kot), jazzista malinconico, impulsivo, romantico fino all’autolesionismo, e Zula (Joanna Kulig), cantante-ballerina, sensuale e selvatica, forse parricida, bugiarda, istintivamente generosa e spietata. Una storia d’amore e di separazioni che corre per quindici anni lungo la Guerra Fredda, a partire dal 1949, tra la campagna polacca senza elettricità e una Varsavia distrutta dalla guerra. Da sfondo alle peregrinazioni dei protagonisi compaiono anche l’ex Yugoslavia e la Berlino Est del 1952, quando la città non era ancora divisa dal muro.

In concorso a Cannes, dove è stato presentato Cold war, c’era anche Estate di Kirill Serebrennikov, che parlava dell’impenetrabilità tra il blocco sovietico e quello occidentale. Forse è maturata la giusta distanza per ripensare al significato di quel periodo: «Non so se sia il momento giusto. Io racconto solo la storia di un uomo e di una donna, di gente che sapeva vivere follemente, superare gli ostacoli e sacrificarsi per qualcosa e qualcuno». Sarà. Ma quella relazione non sarebbe stata altrettanto fatale in un altro contesto, tanto da far allontanare i protagonisti dalla Parigi fumosa e libera, perché priva della malinconia di cui si nutriva il tormento di Wiktor e Zula, che portano i nomi dei genitori del regista, cui il film è dedicato. «I personaggi hanno solo alcuni tratti dei miei genitori, che si sono sposati con altre persone e poi sono tornati insieme, cambiando spesso Paese. Sono stati dei genitori terribili». Pawlikowski è tornato a vivere nel 2013 a Varsavia - dove insegna regia e sceneggiatura alla Wajda School -, dopo aver lasciato la città nei primi anni Settanta, a quattordici anni, per la Gran Bretagna, dove ha studiato filosofia a Londra e a Oxford, per poi trasferirsi in Germania e in Italia e ristabilirsi in Gran Bretagna nel 1977. «Ho cercato di scacciare la storia dei miei genitori, ma mentre giravo Ida riaffiorava continuamente.Guardo la mia patria senza retorica nazionalistica. Avere una terra d’appartenenza per un film è importante e c’è una questione emotiva legata alla lingua. Ida mi ha fornito una chiave non convenzionale per affrontare questa vicenda complicata, i cui protagonisti per metà film tentano di fuggire dalla propria patria e per l’altra metà cercano di rientrarvi».

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Ida racconta di una suora che scopre di essere nata ebrea e cerca il suo passato. Vi è una spiritualità che si riscontra anche in Cold war: «Ma non vi è alcun legame con la religione cattolica, che in Polonia è una forza politica militante. Cold war inizia e finisce con una chiesa bombardata, ma è ortodossa, e la spiritualità di Cold war è riconducibile a un senso di universalità, di assolutezza o di mancanza di questi due elementi». I punti di continuità con Ida vanno dal direttore della fotografia, Lukasz Żal, al formato quasi quadrato, all’eleganza del bianco e nero: «Era l’unica scelta. Inizialmente volevo girare a colori, ma la Polonia degli anni Cinquanta era grigia, marrone e verde e non esiste un colore per rappresentare la monotonia». All’inizio del film Wiktor attraversa alcuni paesini rurali della Polonia con la collega e amante Irena (Agata Kulesza, la zia Wanda diIda) per registrare il patrimonio musicale del Paese. Poi viene coinvolto nella Mazurek Ensemble, una compagnia folk sulla falsariga della Mazowsze, realmente esisitita. Qui entra in scena lo spirito ammaliatore di Joanna Kulig, che Pawlikowski aveva voluto come cantante in Ida e nel 2011 come cameriera in Woman in the Fifth con Ethan Hawke e Kristin Scott-Thomas. Pawlikowski ha scritto la sceneggiatura pensando all’indole inafferrabile dell’attrice, classe 1982, mentre l’altra vera protagonista del film è la musica. «Si inzia in campagna con il folk, poi si passa agli inni nazionali e al jazz. È il collante del film, sottolinea i sentimenti della coppia, le città e il tempo in cui vivono». Cold war ha una regia - che è stata premiata a Cannes ed è in corsa, assieme ad altre quattro candidature, agli Efa che si decideranno il 15 dicembre - che, rispetto al film precedente, è più mossa, per restituire forse l’inquietudine dei protagonisti. La carriera di Pawlikowski inizia alla fine degli anni ’80 con alcuni documentari per la BBC, tra i quali From Moscow to Pietushki, Dostoevsky's Travels, Serbian Epics, con le eccezionali riprese dei criminali di guerra Radovan Karadžić e Ratko Mladić nel loro covo a durante la guerra dei Balcani. Qui compare anche Eduard Limonov, sublimato dall’omonimo, magnifico libro di Emmanuel Carrère, grande amico di Pawlikowski, che proprio grazie a quel documentario conobbe il personaggio. Sembra che il regista polacco abbia in cantiere un film proprio su Limonov nelle sue luci e nelle sue molteplici ombre.

«Alla fine degli anni Ottanta ero un gran consumatore di documentari. Era prima che il mondo intero iniziasse a riprendere se stesso senza lasciare margini di mistero. Per quello sono scappato con Ida e Cold war negli anni Cinquanta, in un universo più vago e meno esplorato». Solo nel 1998 Pawlikowski comincia a cimentarsi nella fiction con il film per la televisione, Twockers, e poi Last Resort e My Summer of Love, premiati ai BAFTA. «Il documentario è per me un’esperienza del passato, anche se mi piace guardare i film con attori non professionisti, pensando che sia la realtà. Ho però smesso di preoccuparmi della differenza tra finzione e realtà, visto che il documentario non registra mai fedelmente le cose. Ogni film, il modo in cui viene realizzato, esprime ciò che il regista ha dentro e la sua abilità. La fiction era l’unico modo per raccontare la storia dei miei genitori e io oggi mi sento più padrone del mio mestiere da potermi lasciare andare».

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