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Parità salariale, la legge italiana rischia di essere superata dalle proposte della Ue

In marzo la Commissione Europea ha proposto una direttiva molto più stringente per le imprese, che avrebbero l’obbligo di pubblicare i dati sul loro sito.

di Monica D'Ascenzo

3' di lettura

Quindici giorni per approvazione alla Camera e al Senato, nessuna modifica nel passaggio e voto favorevole all’unanimità. La modifica al Codice delle pari opportunità ha avuto vita semplice e consenso trasversale in Parlamento. Il fulcro centrale del provvedimento sono le misure per la promozione della parità salariale. Fino ad oggi il Codice delle pari opportunità prevedeva che le imprese con più di cento dipendenti stilassero ogni due anni un rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile in termini di occupazione e retribuzione. Con la modifica la soglia dell’obbligo scende alle aziende con 50 dipendenti. Si amplia così il bacino di interesse della normativa: dalle 13 mila imprese circa con più di 100 dipendenti a 31 mila con più di 50 dipendenti.

Era davvero necessario intervenire sulle differenze salariali di genere? Qualche numero può aiutare a comprendere la portata dell’iniziativa. Il gap salariale a livello europeo è stimato in media al 14,1 per cento. Un dato questo che misura la differenza tra i salari orari medi. La situazione peggiora decisamente nel caso in cui si prende in considerazione il divario retributivo complessivo di genere, includendo nell’analisi anche la media mensile di ore effettivamente retribuite e del tasso di occupazione reale: sommando tutti i fattori, il gender pay gap arriva a una media del 36,7% nell’Unione Europea. In Italia siamo al 43%, fra i Paesi dell’Unione con il divario peggiore secondi solo a Paesi Bassi e l’Austria (44,2%).

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Il problema non è certamente solo italiano, tanto che la Commissione europea si era già mossa lo scorso marzo presentando una proposta di direttiva per rafforzare la parità retributiva di genere, con una maggiore trasparenza e un migliore accesso alla giustizia. La direttiva, ancora da approvare, prevede il diritto da parte dei lavoratori di chiedere ai propri datori di lavoro informazioni sui livelli salariali medi ripartiti per genere. Allo stesso tempo dal canto loro le imprese, oltre a pubblicare sul proprio sito e in modo accessibile i dati, dovranno fornire risposta alle richieste in tempi ragionevoli e nel rispetto delle norme sulla privacy. Non solo. Le aziende dovranno informare i candidati sul livello retributivo della posizione per la quale si presentano e allo stesso tempo avranno il divieto di chiedere informazioni sulle precedenti retribuzioni dei candidati.

Sempre la direttiva europea prevede inoltre per le aziende di oltre 250 dipendenti l’obbligo di rendere pubbliche le informazioni sul divario retributivo e di effettuare periodicamente una valutazione dei salari in collaborazione con le rappresentanze sindacali, elaborando interventi correttivi quando il divario sia pari o superiore al 5% e non sia giustificabile in base a fattori oggettivi. Infine gli Stati dovranno adottare un sistema sanzionatorio efficace, che potrebbe prevedere anche la revoca di erogazioni pubbliche e l’esclusione dalle gare d’appalto pubbliche.

L’iniziativa italiana va sicuramente nella direzione europea ma è attualmente più timida rispetto a un eventuale futuro recepimento della direttiva Ue, qualora fosse approvata. All’art.3 si prevede la pubblicazione sul sito internet del ministero del Lavoro e delle politiche sociali dell’elenco delle aziende che hanno trasmesso il rapporto e specifiche modalità di accesso al rapporto da parte dei lavoratori e delle rappresentanza sindacali nel rispetto della tutela dei dati personali. La legge italiana rinvia comunque ai decreti attuativi e qualche indicazione maggiore potrebbe arrivare quindi in seguito. Certo siamo lontani dal modello inglese. In Gran Bretagna le imprese con oltre 250 dipendenti devono rendere pubblici i dati sulle differenze salariali ogni anno. L’informazione sui salari diventa, quindi, parte della brand reputation delle società ed è un fattore che può essere valutato dai talenti che devono scegliere il loro prossimo posto di lavoro.

Non che la norma britannica stia dando risultati immediati a livello di sistema: l’ufficio nazionale di statistica ha stimato nel 2020 un gender pay gap del 15,5% in riduzione dal 17,4% dell’anno precedente, ma in singoli casi si è registrato addirittura un aumentato. Per questo la misura allo studio, attualmente, è di inserire l’obbligo per le imprese di pubblicare i programmi per la riduzione del divario salariale. Un ulteriore passo avanti, quindi, che dovrebbe servire da monito all’Italia sulla necessità di agire nel concreto. In questo, certamente, faranno la differenza i decreti attuativi.

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