Interventi

La lezione del Portogallo all’Italia

di Luca Veronese

(Adobe Stock)

3' di lettura

In meno di dieci anni, il Portogallo è passato da una lunga fase di modesta performance a una crisi economica gravissima, fino all’attuale solida crescita. L’espansione dell’economia lusitana nel 2019 è prevista all’1,7% (superiore all’1,4% della media Ue), la disoccupazione è al 6,2% dopo essere salita fino al 16 per cento. E se il debito pubblico resta ancora molto alto (intorno al 121% del Pil), il percorso di risanamento è chiaro: il deficit pubblico quest’anno scenderà infatti allo 0,5% del Pil, il livello più basso nella storia democratica del Paese, e per i prossimi anni si arriverà al pareggio di bilancio (anche in virtù del crollo del servizio del debito pubblico, con i rendimenti dei bond decennali stabilmente sotto il 2%).

Quello del Portogallo è tutt’altro che un miracolo, è al contrario una rinascita economica voluta e conquistata a fatica, dopo avere toccato il fondo, sfiorando nel 2011 il default (scongiurato dalla troika Ue-Bce-Fmi con un prestito di 78 miliardi di euro). E se è vero che il ciclo economico internazionale favorevole e gli interventi della Bce di Mario Draghi hanno dato una buona mano a Lisbona, è altrettanto certo che la risalita ha avuto costi enormi per i portoghesi e ha messo a dura prova la coesione sociale nazionale.

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I fattori che hanno permesso all’economia del Portogallo di rinnovarsi e ripartire sono analizzati dallo studio realizzato da The European House-Ambrosetti per la 45esima edizione del forum che si terrà dal 6 all’8 settembre alla Villa d’Este di Cernobbio: “Dalla tragedia al successo internazionale in meno di un decennio: la crisi come elemento scatenante per la svolta dell’economia portoghese”.

Sono tre i passaggi che lo studio individua per spiegare la metamorfosi dell’economia portoghese a partire dalla grande crisi finanziaria internazionale e dalla successiva crisi dell’Eurozona, passando attraverso tre diversi governi. E - fatte le dovute distinzioni - senza rinunciare a un costante parallelo con l’Italia.

«In primo luogo - scrivono gli analisti di The European House-Ambrosetti - le riforme realizzate negli ultimi vent’anni in diversi campi (istruzione, competenze, distribuzione degli investimenti, consolidamento del sistema bancario, miglioramento dell’ambiente economico...) hanno progressivamente migliorato i fondamentali economici del Paese, aprendo la strada alla sua crescita sostenibile nel lungo periodo. Questi cambiamenti hanno migliorato la competitività e la produttività del Portogallo, consentendo al Paese di sfruttare i miglioramenti dello scenario internazionale (soprattutto attraverso le esportazioni)». Colpisce a questo proposito, ancor più in relazione ai dati italiani, il rapido incremento a partire dal 2008 del numero dei laureati (e della loro preparazione) e dei dipendenti nella funzione R&S delle imprese. Così come è significativo il balzo delle esportazioni che oggi valgono più del 44% del Pil portoghese e dieci anni fa erano al 27,4 per cento.

La seconda leva - spiega ancora lo studio - riguarda «le politiche di risanamento intraprese in risposta alla crisi come parte del programma di austerity». Queste «hanno comportato un costo elevato per l’economia portoghese e la coesione sociale. Ma la tempestiva attuazione e la focalizzazione nei settori chiave hanno permesso al Paese di rimettere in sesto le finanze pubbliche, di riaffacciarsi sui mercati finanziari, di correggere gli squilibri esterni (accumulati dalla metà degli anni Novanta) e di riconquistare la fiducia internazionale». Fa parte di queste misure - adottate prima dal governo socialista di José Sócrates e poi da quello conservatore di Pedro Passos Coelho - la riforma del mercato del lavoro che ha ridotto le protezioni dei lavoratori per dare maggiore flessibilità alle imprese.

In terza battuta giunge l’azione del governo del socialista António Costa che con enfasi a partire dal 2015 annuncia la «fine dell’austerity». «Le politiche e l’insistenza di Costa sulla fine dei sacrifici hanno avuto l’effetto - si legge nello studio - di ridare fiducia all’economia reale, di motivare le persone e le imprese, senza agitare i mercati finanziari, mantenendo credibilità con gli investitori e accontentando le istituzioni europee». Il Portogallo non ha certo risolto tutti i suoi problemi (tra gli altri: gli investimenti pubblici devono ancora ripartire e la produttività totale resta troppo bassa) ma «la sua storia recente - conclude la ricerca - può fornire alcuni consigli ai governi italiani».

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