La lunga «liaison» tra l’India e l’acciaio
di Valerio Castronovo
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È stata annunciata per domani un’agitazione dei lavoratori a Taranto e in Liguria sulla questione degli esuberi previsti negli stabilimenti dell’Ilva. Come è noto, a inizio giugno è stata sancita dal Governo l’aggiudicazione al gruppo capitanato dall’imprenditore anglo-indiano Lakshmi Mittal, in cordata le Industrie Marcegaglia (partecipanti per il 15% a quest’operazione), dell’Ilva di Taranto che, insieme agli impianti attivi in Liguria (un tempo dell’Italsider e poi della famiglia Riva), costituisce il principale complesso siderurgico europeo. Il ceo di Arcelor Mittal intende investire nel colosso italiano dell’acciaio (che dal 2015 era in amministrazione controllata) circa 4,5 miliardi di euro, di cui 1,25 per il disinquinamento ambientale nella città pugliese. Si tratta ora di vedere quanti saranno i dipendenti previsti in esubero: ciò che ha già mobilitato i sindacati sul piede di guerra.
Intanto l’acquisizione di questo campione dell’industria europea, da parte di una holding di matrice indiana, rappresenta a suo modo una rivalsa, dopo più di tre secoli, nei confronti del Vecchio continente. Infatti l’India non esportava in passato soltanto spezie delle più diverse specie e panni di lino e tele stampate di cotone di pregevole fattura. E ciò, grazie non solo a un sistema di norme codificate e uno stuolo di corporazioni artigianali ma anche all’attività di mercanti raggruppati in organizzazioni analoghe alle “gilde” europee, e all’esistenza di un solido sistema di crediti e assicurazioni. Tant’è che questi grossisti e intermediari, se non fosse stato per la rapacità dei governanti locali, che li tartassavano con pedaggi d’ogni genere, avrebbero potuto conseguire la stessa posizione sociale raggiunta da quanti esercitavano allora il commercio e gli scambi in Europa. Anche perché le merci provenienti da varie regioni (in particolare il Punjab, il Gujarat, le coste del Coromandel e il Bengala) erano pagate dagli acquirenti stranieri, per tre quarti del loro valore, con monete sonanti in oro e argento.
Inoltre l’India contava tra sei e settecento fabbriche metallurgiche specializzate nella produzione di acciaio, che sfornavano non solo strumenti agricoli, arnesi e utensili comuni, ma anche armi leggere e pesanti. D’altronde, esistevano un po’ dovunque giacimenti di ferro; e la tecnologia necessaria per la costruzione di cannoni di grosso calibro non era affatto sconosciuta in India, in quanto i procedimenti per la fusione di grandi bocche di fuoco in bronzo e in ferro erano stati importati dalla Turchia ottomana e avevano presto raggiunto un livello analogo a quelli in corso in Europa.
In una fortezza vicino ad Amber, appartenente ai principi di Jaipur, esisteva una grande fonderia in grado di fabbricare nel diciassettesimo secolo cannoni che arrivavano sino a due metri di diametro. Altrettanto avanzata era la produzione sia di moschetti, con canne composte da lastre d’acciaio arrotolate, sia di spade, nella cui lavorazione eccellevano i fabbri ferrai dell’India meridionale. I produttori indiani, come quelli del Medio Oriente, erano giunti a stabilire, in virtù di una lunga pratica, che le qualità e le varie applicazioni del ferro dipendevano dalle trasformazioni chimiche del metallo durante i diversi stadi del processo di esposizione al calore. Le fornaci erano alimentate utilizzando per lo più carbone ma anche legname.
Le fornaci erano gestite da nuclei di artigiani proprietari degli strumenti di lavoro, mentre la manodopera era composta per lo più da gente che alternava l’attività in fonderia con quella nei campi, a seconda delle stagioni, e veniva pagata in natura con attrezzi (come il vomere per l’aratro o alcuni utensili d’uso quotidiano). Sta di fatto che anche in questo settore le tecniche impiegate in India non avevano nulla da invidiare, per tutto il Seicento e i primi decenni del secolo successivo, a quelle in uso in Europa.
Il “tallone d’Achille” dell’India consisteva nel fatto che l’Impero Moghul non aveva mai posseduto una marina da guerra, in quanto i sovrani indiani erano preoccupati di presidiare i loro territori alle frontiere settentrionali. Del resto, nemmeno ai primi del Settecento essi avrebbero allestito una propria flotta: tant’è che, per difendersi dai pirati del Malabar, avrebbero finito per chiedere alcune navi in prestito a olandesi e inglesi. Fu così che la Compagnia olandese delle Indie orientali e quella analoga inglese non incontrarono soverchie difficoltà a prendere il sopravvento negli scali e lungo i peripli commerciali dall’Oceano indiano verso l’Europa, traendone larghi profitti.
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