riflessi nel grande schermo

La lunga notte dei carcerati

di Roberto Escobar

Una scena dal film

3' di lettura

La notte del 7 settembre 1973 i militari uruguayani golpisti sequestrano nove tupamaros già in carcere, e li portano in luoghi che rimarranno segreti. Se i guerriglieri in libertà torneranno a combattere, i nove saranno uccisi. Una notte di 12 anni ( La noche de 12 años ) racconta la sorte di tre di loro: Mauricio Rosencof (Chino Darín), Eleuterio Fernández Huidobro (Alfonso Tort) e José Mujica (Antonio de la Torre). Il primo finirà per diventare uno scrittore e un poeta di fama, il secondo sarà nominato Ministro della difesa del suo Paese e il terzo, detto Pepe, ne sarà il Presidente dal novembre 2009 al febbraio 2015. Ora, separati, stanno chiusi in celle senza finestre, nel fondo di pozzi umidi, senza poter parlare, neppure ai loro carcerieri, senza potersi lavare, senza poter leggere né scrivere, senza notizie del mondo esterno, costretti a una quasi totale immobilità. Ne usciranno dopo 4323 lunghi giorni, quando in Uruguay sarà stata ripristinata la democrazia costituzionale.

Quanto silenzio, quanto freddo, quanta prepotenza, quanta umiliazione, quanto dolore, quanta solitudine può sopportare un uomo, prima di togliersi la vita? Questa domanda percorre il film scritto e diretto da Álvaro Brechner. Ed è la stessa che un ufficiale degli aguzzini pone ai suoi prigionieri: perché non vi ammazzate? Ma forse pensa: Dove trovate la forza per non ammazzarvi?

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Tutto è progettato per la loro distruzione: il sequestro violento oltre ogni necessità, il buio imposto per giorni e giorni, le urla e le botte, il rifiuto di spiegare dove si trovino, e perché, e fino a quando. La tecnica è quella di sempre, quando il potere vuole farsi totale, padrone delle anime ancora più che dei corpi. Non sono le catene che li legano al letto, le più pesanti che gravino su Mauricio, Eleuterio e José.

L’ultimo, José, pian piano viene portato sull’orlo della paranoia, e da lì gettato nel suo buio. Quanto agli altri due, ognuno combatte per non perdere se stesso. Può bastare una formica, può bastare osservarla incantati mentre passa sulla mano. Può bastare studiare il succedersi ritmico del ticchettio di una macchina per scrivere. Può bastare percorrere senza sosta il quadrato di tre metri per tre. Può bastare vedere la comicità involontaria della burocrazia dei persecutori, che si affannano attorno al loro prigioniero per controllare che defechi. Può bastare un “piccolo niente”, per rimanere se stessi.

C’è un vantaggio paradossale, nella condizione estrema in cui i tre sono posti. Si può trovare il tempo per osservare gli aguzzini, se ne può avere la forza disperata. Quando succede, si comprende che anche l’aguzzino è un uomo, e che conviene riconoscerne la pur terribile umanità. Lo sapeva e lo ha scritto Primo Levi. L’internato che non vedeva nella SS un uomo, ma solo una SS, moriva prima. Così, dal fondo della sua prigione, Mauricio, lo scrittore, vede un uomo nel maresciallo che lo angaria, e scrive per lui lettere d’amore alla sua donna che mai lui saprebbe scrivere. E il carceriere riesce a vedere, anche lui, nella sua vittima un uomo.

«L’umanità sempre fu salvata all’ultimo minuto da un plotone di esecuzione», dice un aguzzino al suo prigioniero. Mauricio, Eleuterio e José detto Pepe lo smentiscono, per dodici lunghissimi anni.

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