PSICOLOGIA COGNITIVA

La misura giusta della paura

Rischi connessi ai meccanismi che ci portano dalla negazione del pericolo alla sua sottovalutazione fino allo scatenarsi del panico

di Paolo Legrenzi

5' di lettura

Circa un secolo fa iniziò una battaglia combattuta nelle accademie e nei centri di ricerca. Alcuni studiosi, presenti soprattutto negli Stati Uniti, pensavano che per studiare i comportamenti umani si dovessero osservare solo le azioni delle persone, limitandosi a misurare quelle che loro chiamavano le risposte degli individui agli stimoli presenti nell’ambiente. Questo avrebbe dovuto essere il metodo non solo della psicologia ma di tutte le scienze umane, dall’economia allo studio dei comportamenti politici. Altri studiosi, soprattutto tedeschi, pensavano che così non si sarebbe capito nemmeno come funziona la psicologia del senso comune, quella condivisa da tutti, sia da chi ha studiato questa disciplina sia da chi non la conosce.

Kurt Koffka, un importante psicologo tedesco forzosamente emigrato negli Stati Uniti, nel 1935 pubblicò un manuale che divenne un classico. Il punto di partenza è la leggenda del lago di Costanza: «Una sera d’inverno, mentre infuriava una tempesta di neve, un cavaliere raggiunse una locanda, felice di trovarsi al sicuro dopo ore e ore trascorse a cavallo per attraversare la pianura spazzata dal vento ... Sulla soglia il locandiere accolse sorpreso lo straniero e gli chiese da dove fosse venuto. Quando il cavaliere si voltò indicando un punto lontano, nella direzione opposta alla casa, il locandiere esclamò con voce tremante di spavento e meraviglia: “Ma sapete di aver attraversato a cavallo il lago di Costanza?” … il cavaliere rimase impietrito e cadde morto ai suoi piedi». All’origine delle odierne scienze cognitive, che studiano non solo quello che le persone fanno ma anche i loro stati mentali c’è dunque una leggenda centrata sulla paura provata dopo uno scampato pericolo.

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Questa storia viene ancor oggi raccontata nei manuali per distinguere l’ambiente geografico, un pericoloso lago ghiacciato, dall’ambiente immaginato, un terreno piatto e sicuro. La leggenda mostra però anche un’altra cosa: il cavaliere è ormai al sicuro quando viene a sapere dal locandiere del terribile rischio corso. Dovrebbe essere sollevato, invece è colto da un terrore così forte che gli si spezza il cuore.

Non sappiamo se la storia sia vera, ma è plausibile nel mostrare che la paura scatta in maniera automatica, senza che ne siamo coscienti, e che il terrore può distruggere anche quando il pericolo non c’è più. Uno stato d’animo opposto è descritto da William Shakespeare nella scena I, all’inizio dell’atto V del Sogno di una notte di mezza estate. Teseo, duca d’Atene osserva: «Or in the night, imagining some fear, How easy is a bush supposed a bear !» (traduzione italiana a cura di Mario Praz: «…e di notte, a un pensiero di spavento, può far sì che un cespuglio sembri un orso!»). La traduzione è meno efficace perché nell’originale la persona impaurita crede d’avere davanti proprio un orso, cioè un pericolo. Più in generale, l’evoluzione della nostra specie ci ha dotato di un’emozione come la paura che è tanto più alta quanto più qualcosa d’ignoto ci colpisce improvvisamente.

Due generazioni di bambini hanno apprezzato le storie di Mister Magoo, un personaggio dei cartoni animati nato nel 1949. Ha avuto un tale successo che l’ultima serie televisiva è del 2018. Mr. Magoo è un pensionato calvo, basso e miope che si muove nel mondo senza rendersi conto di terribili pericoli da cui si salva ogni volta per caso. Era stato costruito alludendo alla caccia alle streghe che scambiava innocui intellettuali per pericolosi comunisti. Il maccartismo ha sfruttato paure contagiose trasformandole in panico. Il contagio delle paure funziona anche per i bambini che temono per Mr. Magoo e poi provano sollievo per gli scampati pericoli.

Le paure individuali e il panico diffuso obbediscono a un rapporto stretto, misurabile in maniera precisa. Da un lato possiamo rilevare quanto frequente, grave ed evitabile è un pericolo per gli individui che appartengono a uno specifico gruppo di persone. D’altro lato, in vari modi diretti e indiretti, si può misurare la paura degli individui per quel pericolo. Semplificando un po’, possiamo dire che le paure funzionano come quelle dei nostri antenati cacciatori raccoglitori: temiamo di più quanto più ignoriamo la fonte e la natura del pericolo (chi?, cosa?, quando?, perché?). Viceversa se sentiamo che un pericolo è sotto il nostro controllo o lontano nel tempo non lo temiamo, per quanti danni provocherà in futuro.

Forse sarebbe stato bene tenerne conto quando si è cominciato a comunicare le conseguenze di un’epidemia causata da un virus: la maggioranza delle persone era già incline ad avere paura perché era stata contaminata da un contagio molto più veloce e pervasivo di quello biologico. E, all’opposto, forse bisognava maneggiare con cautela le comunicazioni sulle cause di morte. L’esame delle prime centinaia di cartelle cliniche italiane mostra che, su cento persone morte, 48,5% aveva già altre tre o più malattie, 25,6% aveva altre due malattie e il 25,1% aveva un’altra malattia. Questi dati provenivano da una fonte autorevole ed erano corretti, almeno per quelle cartelle. La notizia, propagatasi in rete, si diffuse in tutto il mondo. L’informazione però può essere fraintesa: «Se non avessero avuto altre malattie, non sarebbero morti: chi è sano (giovane?) non corre alcun pericolo».

Di qui le continue trasgressioni delle imposizioni governative, noncuranti delle sanzioni. Meglio forse sarebbe stato dire: «Se quelle persone malate non fossero state contagiate dal virus, oggi sarebbero vive ed io potrei essere un portatore sano». Sono due affermazioni entrambe vere, ma la prima prevale relegando sullo sfondo la seconda.

È stato dato un appiglio per l’illusione di controllo, che è l’atteggiamento più pericoloso, quello che fa accettare i morti sulle strade perché crediamo di controllare la guida della nostra auto, o che fa comprare armi per sentirsi più sicuri in casa. Se non si tiene conto di come funziona la mente umana e si parla solo dei corpi – dei sani, dei malati, dei malati contagiati, dei guariti, e dei morti – si possono provocare effetti non voluti, passando da un panico eccessivo a una sottovalutazione altrettanto dannosa.

Le scienze cognitive sono progredite ma non è stato evitato il copione dei Promessi Sposi: prima il rifiuto della peste, poi la sotto-valutazione e, infine, il contagio del panico. La conoscenza del corpo ci porterà medicine e vaccini. La conoscenza della mente potrebbe portarci a ridurre il terrificante divario tra paure soggettive e pericoli oggettivi. Noi non badiamo ad alcuni pericoli gravissimi perché non li vediamo in azione.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, se non interveniamo, il cambiamento climatico causerà circa 250mila morti addizionali ogni anno dal 2030 al 2050. Il debito globale mondiale sfiorerà alla fine di quest’anno i trecento trilioni di dollari (cifra inimmaginabile, ma si pensi che è tre volte più grande del 2003). Possiamo sperare in classi dirigenti che non siano il semplice specchio delle paure e dei desideri dei più? Che sappiano comunicare i veri pericoli rendendo meno impopolari i rimedi tanto più onerosi quanto più rimandati nel futuro?

Paura, panico, contagio

Paolo Legrenzi

Giunti, Firenze, pagg. 127, € 10

Il volume è disponibile in versione cartacea ed e-book ordinandolo online. L’autore anticipa

in questo articolo i temi del libro

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