UNO SCRITTORE E IL SUO LUSSO

La moda non è frivola, se mai effimera. Parola di un domenicano

Esiste una stretta connessione tra l'abito e la religione. E con l'avvicinarsi del Natale vale la pena di esplorarla

di Alberto Fabio Ambrosio

Alberto Fabio Ambrosio

4' di lettura

Sono un domenicano, esperto di mistica musulmana. Ho vissuto in Turchia per dodici anni, occupandomi della dottrina dei Sufi, con una metodologia di dialogo e apertura interreligiosa. Sette anni fa, mi sono trasferito a Parigi dove non avevo mai vissuto, ma avevo fatto la mia tesi di dottorato: mi ci è voluto del tempo per riprendere contatto con l'Europa e con il mondo occidentale. Di fatto, mi sono reso conto subito che la moda o, meglio ancora, il vestito riconcettualizzato nel sistema moda, è un tema cruciale, che non si ritrova altrove con queste caratteristiche. Io credo che la cultura ebraico-cristiana abbia dato i natali, chiaramente indiretti, alla pratica e alla teoria del vestito. Dico di più: il cristianesimo è la religione del vestire e del vestirsi, anche se poi non è riuscita a dare spessore a una teologia della moda.

Da qui ho pensato di partire. Mia mamma faceva la sarta e ha cresciuto tre figli solo con il suo lavoro, cuciva per grandi marchi francesi e italiani. C'è, dunque, una componente soggettiva e autobiografica nel mio interesse per questi temi. Ricordo il nostro appartamento pieno di stoffe, di etichette. Ero io che a 12, 13 anni andavo a comprarle bottoni, fodere, cerniere, fili. Quando due anni fa – avevo appena avviato la mia ricerca – sono andato a comprare una rivista di moda in edicola, ho detto a me stesso: “Ma che stai facendo? Sei un religioso”. Poi mi sono ricordato di quando andavo a comprare questi giornali per mia mamma. Adesso mi rendo conto che, nella pura teoria, saprei fare io un vestito, perché ho in mente tutti i passaggi, tutti. Li ho visti ripetere a mia madre così tante volte…

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La moda non può essere considerata frivola, forse effimera perché passa, ma frivola no. Frivolo vuol dire vacuo, vuoto, ma il vestito è tutto fuorché vuoto, è abitato, ed è il primo altro da sé con cui ognuno di noi si rapporta e fa i conti da quando nasce a quando muore. Poiché la nostra identità si costruisce nel rapporto io-tu, l'abito gioca un ruolo rilevante nella costruzione di sé. Sono io che lo indosso, io che lo scelgo in base all'umore, alla voglia, all'immaginario, io che lo faccio parlare, ma resta altro da me: un oggetto che diventa tutt'uno con il mio corpo, ma che non è me stesso. Quale aiuto migliore alla formazione dell'io sulla via del dialogo, come metodo di rispetto dell'altro e base di una relazione sociale? Nel momento in cui nelle nostre società viviamo vestiti, l'abito rimane il primo linguaggio.

Ma torniamo al punto principale. Il mondo tessile è la metafora fondativa della nostra religione e il vestito, anche nella sua valenza più esteriore e superficiale, dice una relazione all'origine. La veste tesse il cuore, l'inizio, la fine e il centro assoluto di tutta la storia della salvezza. Apri la prima pagina della Bibbia e trovi Adamo ed Eva che scoprono di essere nudi dopo aver mangiato il frutto proibito. Il peccato d'origine o, come direbbe la psicoanalisi, il senso di colpa, con la conseguente vergogna e il pudore, s'incardina nella dialettica vestito/nudità. Di qui il tentativo di coprirsi con foglie di fico, fino a che Dio stesso non confeziona per il primo uomo e la prima donna delle tuniche di pelli. Ed è una tunica senza cuciture quella che riveste Cristo e che verrà non divisa, ma tirata a sorte dai soldati durante la Passione. Ed è ancora una veste bianca quella che indossano gli eletti dell'Apocalisse. Sono questi i tre momenti fondanti, a cui si aggiungono testi e riferimenti a non finire. Si pensi solo al vestire gli ignudi nella terza delle opere di misericordia o si pensi a San Paolo che invita a rivestirsi di Cristo.

C'è dunque nell'abito un guizzo di eternità e se la moda contemporanea non intuisce questa vocazione, questo richiamo a un valore spirituale, divino nei vestiti che confeziona, si perde forse proprio quell'aura di mistero che ogni abito comporta. Anche il bimbo del Natale nasce ed è subito avvolto in fasce, incarnando, nella metafora del vestire, la categoria ben più importante dell'essere velato e dell'essere disvelato. Gesù è come tutti i bambini, viene alla luce in una nudità originaria che ricorda che Dio è sarto e vestito al tempo stesso. È ora di elaborare una teologia di Dio come il couturier per eccellenza, il modista eterno. Forse questo potrebbe permettere di ricucire con quel sistema della moda che aspira a rivestire gli uomini e le donne, e soprattutto i loro sogni. I gigli non tessono, non filano, eppure neanche Salomone, con tutta la sua gloria, ha abiti tanto meravigliosi. Nella sua irrequieta ricerca estetica la moda tende forse a quel prototipo dell'abito eterno e alla sua perfezione.

(Alberto Fabio Ambrosio è professore di Teologia e storia delle religioni alla School of Religion & Society in Lussemburgo e direttore di ricerca al Collège des Bernardins di Parigi. Dirige un progetto di ricerca sulle interazioni fra la moda e le religioni. Il suo ultimo libro, Dio tre volte sarto, inaugura la collana Vestire l'indicibile. Moda e religioni che dirige per i tipi di Mimesis).

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