La Modotti più segreta in mostra a Palazzo Roverella
In mostra 300 scatti, frutto di un lungo lavoro di ricerca, e per la prima volta la ricostruzione dell’unica rassegna che l’artista allestì nel 1929
di Maria Luisa Colledani
4' di lettura
Sì, Tina, ancora lei. Ma così non l’abbiamo mai vista. La mostra in corso a Rovigo, per la cura appassionata e filologica di Riccardo Costantini, ha tutte, ma proprio tutte, le facce di Tina Modotti: e una ci riporta a lei, come in una macchina del tempo. Nel settembre 1929, l’artista, nata a Udine nel 1896 in una famiglia semplice, scrive a Edward Weston, maestro rimasto per sempre amico: «Sto seriamente pensando a una mostra in tempi brevi, sento che se lascerò questo paese (il Messico, ndr) sarà quasi un dovere mostrare non ciò che io ho fatto, bensì ciò che qui può essere fatto».
Ricostruita la mostra personale del 1929
Alle 7 della sera del 3 dicembre 1929, all’Università del Messico, un centinaio di persone è presente all’inaugurazione di quella che resta l’unica mostra personale di Tina e che la rassegna di Rovigo ricostruisce partendo da documenti d’archivio, dalle foto di cronaca pubblicate sui giornali in quei giorni. Si tratta di 41 scatti certi sui probabili di 57/60 di allora: un collage come voluto da Tina, che al vertice mette l’immagine eroica del suo Julio Antonio Mella e copre con il proprio corpo lo scatto fatto al suo uomo dopo l’assassinio. Per immergersi in quella sera messicana c’è anche la canzone Unión che la voce struggente di Concha Michel, musicista e pionieristica etnografa musicale, cantò durante la mostra.
Cinque anni di ricerca
A Rovigo viaggiamo nel mondo di Tina Modotti, che ha attraversato otto Paesi e parlava cinque lingue, dal suo arrivo negli Usa con le prime esperienze nel cinema agli anni immensi in Messico (fotograferà solo dal 1923 al 1930), allo sbarco a Berlino, fino alla morte nel 1942. Molto spesso più che delle sue foto, ci si è concentrati sulla sua vita, sui suoi amori. Questa rassegna, nata da cinque anni di ricerca ed erede degli studi di Cinemazero, di Piero Colussi e Gianni Pignat, ha identificato 500 scatti autografi che rimettono tutto in ordine: Tina artista e maestra di fotografia prima della Tina combattente. Le 300 immagini in mostra, frutto dei contatti e degli scambi con una trentina di archivi e musei di tutto il mondo, sono la storia di una vita e di un’artista sempre libera e coerente con sé stessa. Ci sono le calle, morbide e sognanti, così cariche del pittorialismo e delle ombre “ereditate” da Weston, ma così diverse per quel leggero fuori fuoco, dna di Tina, che cerca un dialogo con ognuno di noi. E ci propone il suo autonomo percorso, nutrito anche di tanta arte: in una biblioteca di Cormons (Gorizia) è stato trovato il libro I tesori degli Uffizi, con la grafia di Tina che dimostra come la sua cultura e la sua passione andavano oltre la fotografia.
Tina fotografa e antropologa
Le donne di Tehuantepec, con i loro jícara, cantari ricavati dalle zucche, vanno di corsa e, se guardano in camera, hanno la fierezza di Tina e una bellezza senza tempo: vivono in una società matriarcale dove si pratica il sesso libero; i bambini potrebbero essere appena sbarcati da un barcone in avaria nel Mediterraneo e dimostrano ancora una volta il valore sociale del lavoro dell'artista. Che, attiva per un breve periodo (solo dal 1923 al 1930), scattava poco con la sua macchina fotografica a pozzetto e stampava ancor meno. Ci sono le immagini di un viaggio etnografico attraverso le zone più remote del Messico, da cui emerge una forte denuncia decoloniale. Ci sono mani e piedi, e sombreri: metonimie per urlare la vita che arranca. Parti di un tutto che immaginiamo molto bene perché Tina è fotografa, etnografa, antropologa, attivista politica, combattente, animatrice del Soccorso Rosso Internazionale. In una parola, donna che lega la propria vita a quella degli ultimi, così come nell’allestimento, ideato da Monica Gambini, centinaia di fili di lana tengono insieme viaggi, immagini, geometrie.I ritratti di Tina a molti intellettuali dell’epoca (che ironia feroce nella foto delle gambe di Anita Brenner…), personaggi chiave della decolonizzazione, raccontano le sue frequentazioni e sono l’ennesimo tassello di una figura poliedrica, «a matrioska», come la definisce il curatore Riccardo Costantini, per scoprire infine il cuore di tenebra dell’artista, così ricca nei suoi stili, così riconoscibile nella sua coerenza. Anche quando, grazie ai suoi scatti, fa conoscere i muralisti, Rivera, in primis, o quando conquista le copertine delle riviste pubblicando foto di cui abbiamo solo il lascito su quelle pagine.
Tutto cambia nel 1930
Nel 1930 irrompono la Leica e la fotografia di strada, ma con quell’«io non faccio reportage», Tina quasi fa un passo indietro. Viene espulsa dal Messico, con l’accusa – falsa – di aver partecipato all’attentato contro il presidente Rubio e, una volta raggiunta Berlino nel 1930 in modo rocambolesco, non troverà più la carta né, soprattutto, la luce ispirazionale del Messico. La ritroviamo, infiammata dagli ideali dell’Internazionale, a diffondere la rivista «Aiz» a Berlino o, a Barcellona, con il megafono in mano per raccogliere fondi durante la Guerra di Spagna. Poi, di nuovo, in Messico. Muore improvvisamente nel 1942, su un taxi.
Da Rovigo a Udine per un percorso permanente
La mostra di Rovigo, a 50 anni esatti dalla prima rassegna dedicata alla Modotti (a Udine, poi nel 1976 una al MoMa di New York), allarga le conoscenze sulla vita di Tinissima e apre nuovi filoni di studio (come, ad esempio, quello su Tina maestra di fotografia): ora non resta che far confluire il materiale catalogato e studiato in un percorso permanente da allestire a Udine, la città dalla quale partì per gli Stati Uniti nel 1913. L’opera di Tina Modotti è democratica, lei ha diffuso, donato, condiviso. Non le resta che tornare a casa «perché – con le parole di Tina ha muerto, la poesia di Pablo Neruda – non muore il fuoco».
Tina Modotti. L’opera
Rovigo, Palazzo Roverella, fino al 28 gennaio 2024
Catalogo Dario Cimorelli, pagg. 270, € 30
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