La moglie cambia religione e non fa più le faccende domestiche, sì all’addebito della separazione
Se la disaffezione verso il marito e la cura della casa, dal bucato alla cucina, è dovuta solo alla scelta di un nuovo credo la signora è responsabile della fine del matrimonio
di Patrizia Maciocchi
2' di lettura
La scelta di una nuova religione da parte della moglie che coincide con un taglio netto alle faccende domestiche: stop al bucato e ai pasti caldi. Per la Cassazione, in assenza della prova di una crisi precedente la conversione al nuovo credo, può bastare per addebitare alla donna la fine del matrimonio.
La Suprema corte spiega, infatti, che il mutamento di fede religiosa, e la conseguente partecipazione alle pratiche collettive del nuovo culto, è un diritto garantito dalla Costituzione, alla condizione però che la scelta di aderire ad una nuova religione, diversa da quella seguita dal marito, non si traduca in una violazione dei doveri coniugali.
E per i giudici di legittimità, che accolgono il ricorso dell’uomo, potrebbe essere proprio quanto avvenuto nel caso esaminato, in cui la ex moglie si dedicava alla congregazione religiosa, oppure stava davanti al computer. La corte d’Appello aveva sbagliato nel dare un peso al fatto che i coniugi dormissero in stanze separate per escludere che questo fosse il risultato della nuova vita mistica della signora, senza preoccuparsi di capire come era la relazione della coppia prima dell’evento, indicato dal marito come l’inizio della fine dell’unione.
Il disinteresse verso la casa e il marito
La Suprema corte valorizza anche la dichiarazione di un teste che aveva denunciato «gli atteggiamenti di disaffezione costituita dal fatto che la (omissis) si era rifiutata di cucinare, di occuparsi della casa e del bucato». Un’incuria del nido coniugale alla quale la donna aggiungeva continue denigrazioni a danno del coniuge al quale in compenso chiedeva soldi. Un comportamento che, se anche moralmenete violento, va considerato incompatibile con gli obblighi di assistenza morale e materiale e di collaborazione nell’interesse della famiglia a cui ciascuno dei coniugi è tenuto. E dunque valutabile ai fini dell’addebito.
Il precedente del Tribunale di Foggia
Ad occuparsi delle mogli che incrociano le braccia in casa era stato, nel 2021, anche il Tribunale di Foggia, che aveva respinto la richiesta di addebito presentata dal marito, perchè la sua metà, durante il matrimonio, si era rifiutata di cucinare e lavare i suoi panni. Costringendo così l’uomo ad andare a mangiare dalla mamma dopo aver fatto la spesa. Atteggiamenti femminili che, anche in quel caso, erano stati segnalati come contrari ai doveri coniugali di collaborazione e contribuzione all’interesse della famiglia, oltre che all’obbligo di assistenza materiale e morale. La situazione vista più da vicino si era però rivelata diversa: il marito faceva la spesa solo qualche volta e il rifiuto di lavare gli abiti da lavoro era dovuto all’esigenza di non contaminare gli indumenti del figlio.I giudici hanno comunque sottolineato che, dal lontano ’75, con la riforma del diritto di famiglia, i coniugi hanno stessi diritti e stessi doveri. È dunque anacronistico pensare che la cura della casa sia affidata ad un solo componente della coppia. Con lo stesso verdetto però il Tribunale aveva detto no anche alla richiesta della donna di addebitare la fine del matrimonio al marito per infedeltà. Anche in questo caso, infatti, il tradimento non basta se non si dimostra che prima dell’adulterio erano tutte rose e fiori.
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