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La mossa di Mef e Kkr avvicina l’ora delle scelte sulla rete unica delle tlc

Convincere l'antitrust Ue o limitare il perimetro alle zone disagiate. Cdp a fine mese dovrà comunicare al Tesoro se parteciperà alla Netco

di Antonella Olivieri

(ANSA)

4' di lettura

La discesa in campo del Tesoro nella partita della rete, a fianco del fondo Kkr, avvicina il momento delle scelte anche per Open Fiber. Anzitutto Cdp, azionista al 60% della società sfidante sulla fibra, dovrà anticipare a fine agosto la risposta al Mef se prenotare anch’essa una quota, limitata al 3%, nella Netco destinata a incorporare la rete dell’incumbent.

Ma una partecipazione finanziaria della Cassa non è in grado di per sè a fornire una soluzione ai problemi industriali che OF si è trovata ad affrontare. Alla prova dei fatti, il rischio che si sta delineando è quello di andare avanti a costruire autostrade digitali sovvenzionate, ma quasi del tutto vuote . Considerati gli ingenti investimenti necessari per ammodernare il sistema delle telecomunicazioni - a fronte della continua erosione di margini e ricavi nel settore e di una domanda che, per svariati motivi, ancora latita per la in fibra - ci si continua a chiedere se non sarebbe meglio per tutti concentrare gli sforzi su un’unica infrastruttura. Nonostante tutti i tentativi fatti finora a riguardo siano andati a vuoto.

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Bisognerebbe discutere della prospettiva con la Ue e convincere la Commissione che, nella situazione data in Italia, due reti non sono meglio di una. Ma se proprio non se ne a venisse a capo con la rete unica tout court, si dovrebbe tentare almeno di restringere il perimetro alle aree bianche e grigie, perchè altrimenti molto difficilmente si riuscirebbe a “digitalizzare” davvero le zone oggi a fallimento di mercato.

Se a fine settembre diventerà vincolante l’offerta di Kkr, come tutto lascia pensare, un passaggio-chiave sarà l’approvazione dello scorporo della rete da parte degli organi sociali di Tim, con la probabile assemblea che si collocherebbe tra novembre e dicembre. Da quel momento in avanti si potrebbe realisticamente avviare la discussione sull’ipotesi di concentrazione che è contemplata anche dall’attuale proposta del fondo Usa, come variabile migliorativa dell’offerta che, da una base di 21 miliardi (enterprise value, equity più debito), arriva a fino a 23 miliardi. Meglio discuterne prima che poi perchè più passa il tempo e più le sinergie ipotizzate sulla carta si assottigliano. Limitare il perimetro alle aree più disagiate è considerata un’alterntiva “subottimale” da chi sta ragionando sul tema. Ma sempre meglio di niente.

Attualmente, nel complesso, sono solo 200-250mila gli utenti che ogni trimestre passano alla fibra, meno di un milione all’anno. Facile calcolare che, di questo passo, ci vorrebbe qualche decennio per connettere l’Italia in Ftth. Ma a preoccupare, soprattutto, è la situazione allarmante delle aree bianche, verso le quali sono state convogliate ingenti risorse pubbliche al fine di colmare un gap che, invece di ridursi, si è ampliato.

Dei 2,6 milioni totali di linee attive in fibra che si appoggiano alla rete di Open Fiber (pari a una quota di mercato del 65% sull’Ftth), nelle aree bianche, dove l’operatore controllato da Cdp equity ha vinto tutte le concessioni, sono invece appena 170mila le linee attive sui 3,5 milioni di unità immobiliari effettivamente “vendibili” in 4mila Comuni sui poco più dei 6mila Comuni rientranti nei bandi. Risultati a dir poco insoddisfacenti per Open Fiber, che nelle aree bianche ha già dovuto far fronte a quasi 2 miliardi di investimenti.

Nelle zone più disagiate l’incumbent ha supplito, dove e come ha potuto per servire i propri clienti, con la formula dell’Fttc, che porta la fibra fino all’armadietto sotto casa, ma in casa ci arriva ancora col vecchio rame. In pandemia, pur con velocità di navigazione inferiori all’Ftth, la disponibilità di connessioni in Fttc è stata una benedizione per chi era costretto tra le quattro mura. Ma è chiaro che qui una parte della domanda potenziale per OF è stata soddisfatta, per ora, altrimenti.

C’è poi il fatto, per nulla irrilevante, che i bandi di concessione, per come sono stati concepiti, hanno prodotto reti monche, non collegate né a monte né a valle. Il piano Bul (banda ultralarga) del 2016 prevedeva infatti per le aree bianche la costruzione di infrastrutture a livello di territorio comunale, senza però ricomprendere né gli ultimi “40 metri” per entrare nelle case, né il backhauling, cioè il collegamento alla dorsale nazionale. Si supponeva che gli operatori di mercato avrebbero portato i loro apparati per connettere i clienti, ma questo non è successo.

Se però i clienti non arrivano, si indebolisce anche la prospettiva dei ritorni attesi a supporto del project financing da 7,2 miliardi, che al momento può contare solo sui ricavi che Open Fiber è in grado di realizzare nelle aree nere, dove in campo sulla fibra c’è anche il concorrente Tim.

Per cercare di uscire dall’impasse, da una parte Open Fiber si è fatta carico dei costi di backhauling che, nel complesso, stima ammontino a 250-260 milioni. E dall’altra, pur di portare a casa il cliente, si è resa disponibile ad anticipare i 500 euro di costo medio per ogni allacciamento: spese difficilmente sostenibili in prospettiva, visto che ogni 2 milioni di linee si tratterebbe di mettere sul piatto un altro miliardo di euro. Per lo Stato non sarebbe comunque un gran vantaggio se quei collegamenti restassero di proprietà di Open Fiber. Alla scadenza della concessione, nel 2037, allo Stato verrebbe riconsegnata infatti la disponibilità di una rete di fatto inservibile perchè i clienti - seppur in via indiretta, visto che stiamo parlando di un operatore all’ingrosso - resterebbero in mano all’ex concessionaria.

Per le aree bianche, ma anche per le grigie, bisogna comunque accettare il dato di fatto che si parte da valori economici negativi e che, senza correzioni, nessuno sarebbe disposto a mettere mano al portafoglio per portarne avanti la cablatura.

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