La musica classica del rock
di Riccardo Piaggio
4' di lettura
Non tutte le salme hanno il privilegio di diventare reliquie, ma può succedere di tutto, when pigs fly. Loro sono i Pink Floyd (Barrett e Wright non ci sono più) e Their Mortal Remains, le loro spoglie, sono ora magnificamente esposte nelle luminose sale del londinese Victoria and Albert Museum (che già aveva celebrato, con oltre trecento memorabilia, David Bowie), nella omonima Pink Floyd Exhibition, visitabile fino al 1° ottobre prossimo (successivamente, potrà diventare un evento nomade globale).
Ci sono voluti quarant’anni, per dar luce al lato oscuro della luna; oppure, se vogliamo cambiare d’angolo, per mandare in ombra quello visibile. E, dopo trentotto anni, cade finalmente anche l’ultimo mattoncino del minaccioso muro eretto dai cattivi maestri dell’ancien régime, contro cui all’epoca si ribellarono gli studenti della londinese Islington Green School. Perché ora l’Accademia accoglie, premia e celebra il sentimento di ribellione e di alienazione che da cinquantuno anni è il motore della musica e dell’arte dei Pink Floyd.
La band che con gli album The Dark Side of the Moon (secondo album più ascoltato di sempre), Animals (40° anniversario per il maiale volante sulle ciminiere della Battersea Power Station) e soprattutto The Wall (il trionfo dell’Era Waters, l’album che ha maggiormente segnato l’immaginario globale), ha frequentato con grande successo, sorreggendoli per noi, i quattro pilastri del rock: The Wall è un concept album, un’Opera rock, un’alleanza di linguaggi e discipline (musica, cinema, illustrazione, psicologia e sociologia); infine, ha codificato la liturgia sonora del rock (più del cantico perfetto dei Beatles, della voce di Dylan, dell’onda d’urto degli Stones): con i Pink Floyd, la musica rock diventa musica classica.
Il diavolo della rivoluzione non sta nel dettaglio (la musica progressive o psichedelica), ma nella percezione offerta ai mortali: con la band britannica il rock assume la terza dimensione e diventa sound design, enterteinment concettuale. Ci si potrebbe riempire quasi un continente, con gli adolescenti che hanno cercato di riprodurre, nota per nota, canzoni come Breathe (’73), Shine on you crazy diamond (’75), Nobody home (’79, dal cui testo è tratto il titolo dell’exhibition londinese). Le canzoni dei Pink Floyd (non quelle dei Beatles, di Dylan, degli Stones) si riproducevano, religiosamente, da uno spartito, per rivivere quell’epopea elettrica sempre nutrita dal cordone ombelicale del jack.
Varcata l’austera soglia del V&A, ci si imbarca in una esperienza immersiva negli oggetti, nei suoni, nelle immagini che hanno reso i Pink Floyd un fenomeno pop globale, dalle maschere originali degli studenti nel video di Another Brick in The Wall alle riproduzioni del celebre muro e dei pupazzi giganti (i cattivi maestri) della saga, a cimeli vari di psichedelica memoria. The graphic identity of Pink Floyd raccoglie le memorabilia della band dal 1967 ad oggi; covers, album artworks, affiches e tutto ciò che, sulla carta, ha segnato e disegnato l’epopea rock, le sue trasgressioni, le sue invenzioni e, persino, le sue sconfitte.
A Londra l’arte è una cosa seria, e dunque si è invitati a giocare: al pubblico è consentito vedere, toccare e imparare, con workshop (costruire un sintetizzatore), lectures e descrittive talks sul design dei Pink Floyd. Questa non è solo una retrospettiva (le mostre sul rock sono veglie funebri), ma l’epifania di un sentimento comune verso l’arte dei prossimi decenni: sopravvive solo ciò che è vissuto davvero la prima volta. Il successo, l’eccesso e, dietro, l’ombra della maledizione esistenziale (che colpì da subito il geniale e mai pervenuto Syd Barrett) è un cocktail richiesto, che ben si adatta ad ogni stagione.
Questa celebrazione ha luogo nel tempio che meglio rappresenta la sintesi tra la tradizione e la sperimentazione, tra l’arte e la cultura del vecchio e dei nuovi, incerti mondi. Nessun artista è più al sicuro, perché i miracoli arrivano quando si sbircia oltre i muri e i comodi giardini, compresa questa oasi di cultura tra il distretto diplomatico di Belgravia e il grande parco urbano frequentato da londinesi, turisti e i nuovi residenti russi. Che è la più autentica casa della storia inglese (colonie e protettorati compresi); passeggiando tra gli oltre due milioni e trecentomila pezzi della collezione permanente (tra cui la più importante collezione al mondo di opere del Rinascimento italiano, fuori dall’Italia), si comprende perché il più importante museo al mondo di arte decorativa sia tra i centri di produzione culturale e didattica che fanno da vero varo alle istituzioni culturali in tutto il mondo; V&A è una sorta di holding, amministra altri cinque musei, tra cui il Bethnal Green Museum of Childhood, piccolo gioiello esperienziale per l’infanzia.
Per la cronaca, i 23 studenti del coro del Muro alcuni anni fa si ribellarono ai maestri, quelli buoni, ma in nome del diritto d’autore; ed ora, mentre il celebre maiale volante continua a galleggiare sopra le nostre teste (all’ingresso del Museo), quegli adolescenti, dopo essere passati dal tritacarne (We don’t need no education), giustamente hanno rivendicato almeno il tintinnio della moneta percepita dalla rivoluzionaria macchina produttiva musicale; con il senno di poi, quella carne probabilmente avrebbero desiderato produrla, o quantomeno mangiarla.
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