La musica come atto di resistenza
In “Un canto salverà il mondo” Francesco Lotoro evidenzia come il contesto della prigionia per alcuni fu uno stimolo alla creazione
di Tommaso Munari
3' di lettura
Nel secondo dopoguerra, dal sottosuolo del ghetto nazista di Varsavia, smantellato nel 1943, riemersero documenti di vario genere, nascosti dai suoi abitanti a futura memoria: decreti dell’autorità tedesca, verbali del consiglio ebraico, giornali clandestini, buoni alimentari, manifesti di concerti e spettacoli organizzati al suo interno a partire dal 1940. Lo stesso accadde, per fare un altro esempio, nel campo di sterminio di Birkenau, la cui terra, mista a ceneri umane, restituì sia i pochi documenti che i prigionieri erano riusciti a portare con sé dai ghetti sia alcuni diari che i membri del Sonderkommando avevano iniziato a tenere dopo la deportazione.
Prime testimonianze della Shoah
Si tratta delle prime testimonianze della Shoah, memorie d’oltretomba che preannunciano quella che la storica Annette Wieviorka avrebbe chiamato «l’era del testimone».
Ma oltre alle ultime parole delle vittime e, in un secondo tempo, alle voci incalzanti dei sopravvissuti, dall’universo concentrazionario riaffiorò musica. Moltissima musica: circa ottomila partiture. O almeno questo è il numero, ancora provvisorio, di quelle raccolte dal pianista e compositore Francesco Lotoro, impegnato da oltre trent’anni in un progetto di recupero, archiviazione ed esecuzione delle musiche scritte nei campi di concentramento e in altri luoghi di prigionia tra il 1933 e il 1953, ovvero dall’ascesa al potere di Hitler alla morte di Stalin.
L’ampia periodizzazione - simbolicamente suggestiva ma storiograficamente problematica - non basta a spiegare un numero così alto di spartiti. Secondo Lotoro, infatti, la vera ragione di questa abbondanza sarebbe insita nella funzione assunta dalla musica in un contesto di prigionia. Quella, cioè, di atto di resistenza. Da qui la netta prevalenza di marce e canti, intonati per scandire il lavoro coatto, il più celebre dei quali è il Moorsoldatenlied. Scritto da Johann Esser con Wolfgang Langhoff e musicato da Rudi Goguel nel campo di concentramento di Börgermoor nel 1933 («siamo i soldati della palude / colla vanga marciamo nel fango») fu adattato e tradotto in molte lingue divenendo in pochi anni una canzone di protesta diffusa in tutto il mondo.
Stimolo alla creazione
Per alcuni musicisti la condizione di prigionia rappresentò addirittura uno stimolo alla creazione. In un testo abbozzato qualche mese prima di finire in una camera a gas (Goethe und Ghetto, 1944), il compositore austriaco Viktor Ullmann giunse a definire il campo di Theresienstadt una «scuola di forma», che arricchì e migliorò la sua produzione musicale. Fu lì che compose l’opera Der Kaiser von Atlantis, uno dei vertici della musica concentrazionaria assieme all’Ottava sinfonia del ceco Erwin Schulhoff (composta a Wülzburg nel 1942) e alla Sonata per violino e pianoforte del polacco Hermann Gürtler (scritta a Bolzano nel 1944).
Queste tre opere sono la punta del gigantesco iceberg - formato da lieder, sonate, fughe, messe, oratori, operette, canzoni e filastrocche - riportato a galla da Lotoro nel corso di innumerevoli peregrinazioni. Ma come ha fatto tutta questa musica a sopravvivere e giungere fino a noi?
Nei modi più impensabili. Oltre a imparare a memoria centinaia di canti ascoltati nel campo di Sachsenhausen, il cantautore polacco Aleksander Kulisiewicz riuscì a spedire alcune cartoline con annotazioni musicali in codice. Altri musicisti utilizzarono come pentagramma carta igienica (Rudolf Karel), sacchi di juta (Gino Marinuzzi) e i materiali più disparati. Altri ancora si affidarono alla mera trasmissione orale, nella speranza che passando di bocca in bocca la musica riuscisse a oltrepassare il filo spinato.
Le pagine più riuscite di Un canto salverà il mondo – il libro con cui Lotoro divulga i risultati delle sue ricerche – sono proprio quelle dedicate ai modi in cui questa vasta letteratura musicale fu creata e tramandata. Allo stesso tempo sono quelle in cui l’autore rischia maggiormente di scivolare nella generalizzazione. L’«universo concentrazionario» descritto nel libro è infatti costituito da molteplici realtà – ghetti, lager, stalag, gulag ecc. – a cui corrispondono categorie di prigionieri, condizioni di vita e tipologie di musica fondamentalmente diverse.
La stessa tendenza a generalizzare si coglie in altri punti del saggio: «Il musicista era, è e sarà sempre in prima linea», sostiene ottimisticamente Lotoro, «nella difesa dei più irrinunciabili valori morali e sociali». Purtroppo non è così. Basta leggere lo splendido libro Il resto è rumore di Alex Ross (2007) per sapere quanto spesso, nel corso del Novecento, la grande musica sia stata «alleata della grande malvagità».
Un canto salverà il mondo, Francesco Lotoro, Feltrinelli, pagg. 256, € 18
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