La narrazione post-coloniale della 15a Biennale di Sharjah
Thinking Historically in the Present è l’ultima creazione del compianto curatore nigeriano Okwui Enwezor con un focus sull'ecosistema artistico del Global South
di Maria Adelaide Marchesoni
I punti chiave
4' di lettura
Sharjah è la terza città più grande degli Emirati Arabi Uniti. È un centro dedicato alla cultura il cui sviluppo è opera della famiglia Al Qasimi che, nel corso degli anni, ha sostenuto il posizionamento dell’Emirato eleggendolo come rifugio per le arti, oltre a dare impulso e visibilità agli artisti arabi. Ma il punto di forza di questo luogo è aver fondato nel lontano 1993 la Biennale che quest’anno compie 30 anni. L'edizione numero 15 intitolata Thinking Historically in the Present (dal 7 febbraio all'11 giugno) è stata ideata dal compianto curatore Okwui Enwezor, curata da Hoor Al Qasimi, presenta oltre 300 opere di oltre 150 artisti, di cui 70 hanno ricevuto la commissione di realizzare nuove opere. Il budget per la realizzazione di ogni progetto è completamente diverso, in linea con le esigenze di ogni opera. Nessuna disclosure da parte della Sharjah Art Foundation che per realizzare le nuove commissioni ha lavorato con diverse importanti istituzioni e altri partner che hanno finanziato parte dei progetti.
La mostra
Per apprezzare la mostra occorre dedicare molto tempo sia perché ad ogni artista è stato concesso uno spazio espositivo molto generoso sia per le numerosi sedi. L'arte è distribuita in 19 spazi sparsi per Sharjah, tra cui un mercato ortofrutticolo, il Sharjah Art Museum, un asilo in disuso, un ex mulino per la produzione di mangimi per pesci e un deposito di ghiaccio nella città di Kalba, sul Golfo dell’Oman, trasformati in spazi per l’arte. Della 15° Biennale di Sharjah colpisce l’ampiezza dell’ispirazione artistica e l’intreccio delle storie raccontate dagli artisti nelle loro opere. Un altro aspetto di questa Biennale è che dei 150 artisti quasi tutti provengono o hanno radici familiari in Paesi precedentemente colonizzati. È rappresentativa del Global South, di un'area culturale che sta facendo emergere un enorme ecosistema artistico.
Le star emergenti e a metà carriera, come Cao Fei, Joiri Minaya, Gabriela Golder, Hyesoo Park e Lee Kai Chung, superano per numero gli artisti established, tra cui Kerry James Marshall (che ha realizzato un inaspettato mosaico all’aperto), Mona Hatoum (tre le opere presentate, tra cui «Fossil Folly» 2023 presenta 15 barili di petrolio in acciaio in disuso dai quali emergono le sagome di piante del deserto come fantasmi dal loro stato fossile dormiente), María Magdalena Campos-Pons, David Hammons, John Akomfrah e Amar Kanwar. Un altro aspetto che colpisce è la scelta di eliminare le didascalia delle opere e l'indicazione dei Paesi da dove provengono gli artisti. Il motivo come ha ricordato Hoor Al Qasimi deriva dal fatto che oggi quando si parla di nazioni le questioni sono numerose, alcune persone vivono come rifugiati, ci sono matrimoni misti o etnie diverse che vivono nello stesso Paese. Come si definisce oggi l'appartenenza ad una nazionalità? Difficile dare una risposta a questa domanda.
Le nuove commissioni
I rapporti di lunga data che la Sharjah Art Foundation intrattiene con gli artisti sono evidenti dalle generose commissioni site-specific. Ad esempio, «Until we became fire and fire us» (2023) di Basel Abbas e Ruanne Abou-Rahme - una proiezione multischermo frammentata sulla condizione palestinese - è dispersa nello spazio tra le rovine della vecchia casa Bait Haider Abadi, una struttura che interpreta fedelmente le espressioni di sradicamento. L’opera di Mirna Bamieh, intitolata «Sour Things» (2023) occupa una vasta area del vecchio mercato ortofrutticolo abbandonato di Jubail, è una presentazione di delicate ceramiche, dove dita con un unghie argentate reggono ricette e scritte su un lungo tavolo illuminato da candele e affiancato da bancarelle di frutta fermentata e limoni ammuffiti. Doris Salcedo, con l'opera «Uprooted» (2020-22), realizzata con “centinaia di alberi morti” legati insieme per formare una casa, intende sottolineare “l’impossibilità per un migrante di possedere una casa o un pezzo di terra - l'essere sempre di passaggio, con poche possibilità di appartenenza e ancor meno di essere accolti”. Salcedo insieme a Hajra Waheed e Bouchra Khalili sono stati i vincitori di questa edizione della Biennale. «The Circle» (2023) l'opera di Khalili occupa una grande galleria ed è una costellazione di filmati d’archivio, interviste, fotografie, oggetti e testi che esaminano l’eredità del Movimento dei lavoratori arabi, un’organizzazione politica radicale fondata da immigrati nordafricani nella Francia degli anni Settanta. «Hum II» (2023) di Hajra Waheed è un'installazione sonora multicanale ospitata all'interno di una camera sonora conica che riproduce una polifonia di sette canzoni diffuse durante le proteste delle donne, forme radicali di azioni collettive e sonore che sfidano le costruzioni dei confini e trasformano per un momento le affiliazioni etniche, religiose, linguistiche e nazionali in appelli più ampi alla solidarietà. La grande scultura di Nari Ward, «Nu Colossus», è stata realizzata per la prima volta più di dieci anni fa, ha la forma di una trappola per pesci intrecciata, ma l'opera non riguarda necessariamente l’intrappolamento, suggerisce l'artista ma “il fatto di collocarsi in uno spazio in cui si deve re-immaginare la realtà”. Moza Almatrooshi, un’artista interessata alle pratiche agricole e alla consapevolezza del clima, ha trasformato diversi spazi del mercato in micro-terrari.
Installazioni e video
In linea con le tendenze dell’ultimo decennio o delle ultime due biennali internazionali, l’accento è posto sull’installazione e sul video con una base documentaria. La videoinstallazione «Wonderland» (2016) di Erkan Özgen presenta in un’intervista la storia di Muhammed, un rifugiato siriano di 13 anni che nel 2014 è fuggito con la sua famiglia dall’occupazione dello Stato Islamico verso il sud-est della Turchia. L’installazione in bianco e nero a cinque canali «Once Again ... (Statues Never Die)» di Isaac Julien del 2022 affronta il dibattito sulla decolonizzazione del museo attraverso una corrispondenza immaginaria tra il filosofo e critico queer nero Alain Locke e Albert Barnes, educatore artistico e influente collezionista di arte africana. I due uomini si scambiano osservazioni erudite sul rapporto inquieto tra l’arte nera e l’istituzione, con intermezzi di filmati d’archivio di manufatti africani conservati al British Museum e la poesia di Langston Hughes. Ibrahim Mahama ha presentato due installazioni site-specific che esplorano l’eredità del corpo sui beni che occupa o produce. L’emozionante «Parliament of the Ghost» (2023) è un assemblaggio di oggetti trovati, tra cui sedie a rotelle di recupero, disposte come una platea vuota. Tante le proposte artistiche che continuano a parlarci di integrazione e di ricerca delle origini, tante a cui dedicare tempo per comprendere una unamità in cerca di pace.
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