La nostalgia del villeggiare e la gabbia delle ferie
La vacanza. Nella parola c’è un semplice gesto liberatorio, un abbandono indipendente dal luogo dove si va
di Natalino Irti
3' di lettura
Si villeggiava; si andava e si stava in villa. La parola evoca tempi lontani, costumi di nobiltà e di borghesia, che dalla città si ritraevano nella casa di campagna, dalle strade affollate nella solitaria frescura dei boschi. La parola non dice nulla di lavoro e di riposo, di tregua aperta nell’incalzante quotidianità: essa esprime piuttosto un luogo e uno stile architettonico, e modi e forme di schiva civiltà. Leggevamo, nel decennio ’70/’80 del secolo scorso, le prose finissime del marchese Roberto Ridolfi, che tutte si aggiravano e connettevano ai poggi fiorentini, alle erbose viottole, alle “terrazze olivate”, e insomma allo stare in villa. «Addio alla Baronta» ne raccolse e custodisce le ultime: un fragile e piccolo libro, che nella scansia sceglie di certo, per vicino e consonante, Villa, il saggio tra svagato e malinconico, di Rudolf Borchardt, tedesco amantissimo del nostro paesaggio e delle case di campagna, che vi sorgono, nude e semplici, con alti e rudi muri di cinta. Il villeggiare era un star lontani dalla città, e insieme un gusto di letture e di silenzi, di radi e scelti incontri, un ritrovarsi fra pochi nelle stesse idee e fin nei medesimi tratti e contegni di vita.
Già la parola vacanza ha altro timbro e capacità evocativa. C’è l’eco di qualcosa a cui ci sottraiamo, che lasciamo dietro di noi, che prima ci occupava e teneva legati. Non tanto libertà, quanto liberazione: l’andare in vacanza è sì uno sciogliersi dai lacci, ma un andare senza meta prestabilita. Non c’è il “verso dove”, di cui è invece pieno e denso il villeggiare. Si può andare in vacanza e restare in città, scrollarci di dosso un peso o una fatica e non desiderare altri luoghi. Così, mentre nel villeggiare risuona anche l’idea di un avere – villa, si spiega in un lessico ottocentesco, è “possessione con casa da abitarvi il padrone” –, vacanza non dice né luogo né proprietà, ma un semplice gesto liberatorio, un abbandono arioso e lieve e talora ironico (la memoria è pronta a offrirci titoli di film classici, da «Les vacances de Monsieur Hulot» a «Vacanze romane»).
Ma oggi tutti si scambiano domande sulle ferie, e fanno programmi di come trascorrerle. O, meglio, passarle, perché nella parola c’è il tono di qualcosa che deve esser fatto e compiuto. Prendere le ferie non è né villeggiare né andare in vacanza: non ha il fascino esclusivo e possessivo dell’uno, non il respiro e la spigliatezza liberatrice dell’altro. Le ferie indicano un riposo necessario, corrispettivo di un lavoro, al servizio del quale sono concepite e utilizzate. Esse s’inscrivono sempre, o quasi sempre, in un piano: piano dell’impresa o della qualsiasi struttura produttiva, in cui sono calcolate e distribuite. Il linguaggio delle ferie è il linguaggio del piano, che ripartisce uomini, determina tempi, prevede sostituzioni, fissa presenze e assenze. Se in villeggiatura e in vacanza vibra una nota di scioltezza, di decisione soggettiva e di gusto personale, le ferie appartengono invece alla razionalità del mondo economico, al calcolo rigoroso della produzione. Ferie irregolari e arbitrarie romperebbero il ciclo produttivo e getterebbero nel caos la razionale continuità dell’impresa.
Questo, che sembra un discorrere di parole e un esercizio della stanca estate, si rivela così una riflessione sul vivere del nostro tempo, che poco conosce la civiltà del villeggiare o l’apertura estrosa della vacanza, ma si chiude nella gabbia, rigida e razionale, delle ferie, cioè di soste organizzate in moduli uniformi e ripetitivi. Pure in esse la verde e fuggevole età, o l’animo libero e sereno, aprono varchi di spensieratezza, di abbandono, e di gioioso disfrenarsi dei sensi. Ognuno può ricavarne secondo proprie attitudini e fantasie, fuori da vincoli di luogo o di classi sociali.
Queste tre specie si raccolgono nel cerchio magico dell’otium, e significano tutte lontananza dall’impegno, e tutte racchiudono un non so che di pigrizia (come si legge in un vecchio e ingiallito vocabolario), un lume o illusione di libertà. Anche lo spettatore ne prova una qualche vaghezza, e guarda al mite e pallido settembre.
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