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La nuova geopolitica dei chip nel mondo multipolare

Le sanzioni americane alle aziende di semiconduttori cinesi stanno influenzando l’intera catena del valore dei semiconduttori

di Paolo Acquaviva e Andrea Filippetti*

(Freddie - stock.adobe.com)

4' di lettura

Le sanzioni americane alle aziende di semiconduttori cinesi stanno influenzando l’intera catena del valore dei semiconduttori. Quasi tutti i grandi protagonisti di questa nicchia di mercato basano parte della propria catena di fornitura nel Regno di Mezzo, usufruendo però delle proprietà intellettuali e dei software made in USA. Le restrizioni imposte da Washington hanno posto le aziende di fronte a una condizione di aut aut: proseguire i rapporti di produzione e outsourcing in Cina oppure continuare ad usufruire della tecnologia statunitense. In quest’ottica, i leader del settore hanno cercato di rispondere alle tensioni geopolitiche senza smantellare le catene di fornitura, bensì ponendo in essere strategie di de-risking, che consistono nel modificare la distribuzione della produzione tenendo in considerazione non solo parametri di ottimizzazione del capitale o dei costi, ma anche della nuova variabile chiave: il rischio geopolitico. Su questa falsa riga è nata la strategia ‘China +1’ che prevede che le aziende mantengano parte della catena di fornitura (supply chain) in Cina, spostando al contempo gli anelli della catena più rischiosi in una terza nazione ritenuta geopoliticamente neutrale e allo stesso tempo industrialmente solida.

Nell’ambito dei semiconduttori la regione del sudest asiatico soddisfa queste condizioni, in quanto è attualmente una delle zone in più rapida crescita al mondo pur mantenendo un buon rapporto sia con gli Stati Uniti sia con la Cina. I Paesi del Sud-est asiatico stanno cercando di rendersi attraenti per le grandi imprese, anche attraverso incentivi fiscali ad hoc. Ad oggi, questa area incarna lo spirito di un business partner accomodante privo di rischi geopolitici.

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Nell’ambito del primo step produttivo della catena dei semiconduttori, l’attività di ricerca e sviluppo e il design dei chip, le sanzioni americane che limitano l’accesso ai software EDA (Electronic Design Automation) alle aziende cinesi rappresentano un duro colpo per l’intera filiera, poiché le imprese di tutto il mondo si sono affidate proprio alle aziende cinesi in questa fase. Il Vietnam grazie al proprio basso costo del lavoro (la metà del costo del lavoro cinese) e abbondanza di ingegneri, rappresenta uno dei paesi attraenti per le aziende che vogliono ridurre il rischio della propria supply chain e applicare la strategia China+1. Imprese leader come Qualcomm, Synopsys e Samsung hanno insediato centri di Ricerca e Sviluppo nel paese facendo rilevanti investimenti negli ultimi due anni.

Se per la ricerca e il design dei chip l’impatto delle sanzioni è stato significativo, il collo di bottiglia più dirompente si è formato lungo il front-end manufacturing, ossia il vero e proprio processo di fabbricazione del semiconduttore. Le restrizioni americane, infatti, vanno oltre l’utilizzo di proprietà intellettuale e software necessari alla stampa dei chip, estendendosi all’impiego dei macchinari che consentono la produzione di chip all’avanguardia - su tutti il divieto di accesso alla litografia ultravioletta estrema (EUVL) della azienda olandese ASML. In questo caso una mera strategia di riduzione del rischio non è sufficiente. È necessario costruire una solida rete di produzione che superi la concentrazione di produttori cinesi. In questo contesto Singapore sta giocando un ruolo di primo piano nella strategia China+1. Oltre ad avere ottimi rapporti sia con Washington che con Pechino, Singapore vanta una posizione privilegiata dal punto di vista geografico, assieme ad un sistema di logistica efficiente e capacità produttive avanzate. A rendere la nazione ancora più appetibile vi sono gli incentivi statali e l’assistenza concessi alle aziende high-tech tramite la Singapore Economic Development Board, nonché lo status di hub finanziario del sudest asiatico che garantisce la possibilità di acquisire capitale con facilità - seconda solo ad una “rischiosa e turbolenta” Hong Kong. Aziende leader come le americane Applied Material e Global Foundries hanno avviato la costruzione impianti di produzione con investimenti da 450 milioni e 4 miliardi di dollari rispettivamente con la partnership della Singapore Economic Development Board; la francese Soitec ha investito 430 milioni di dollari per raddoppiare il proprio gettito produttivo di wafer – la superficie su cui viene stampato il semiconduttore precedentemente disegnato.

In questo contesto l’Europa ha messo in piedi il Chips Act, un pacchetto legislativo sui semiconduttori con cui rafforzare la competitività e l’autonomia tecnologica dell’Europa tramite lo stanziamento di 43 miliardi di euro, con l’obiettivo di raddoppiare entro il 2030 la produzione europea di semiconduttori. Tuttavia gli interventi pubblici e le partnership pubblico-private, assieme ai 43 miliardi di euro stanziati, non sembrano essere sufficienti né totalmente efficaci per raggiungere l’obbiettivo per via della conformazione strutturale del comparto in Europa, molto avanzato nell’attività di ricerca e design, con campioni come IMEC o Soitec, avanzato anche nella produzione di tecniche e materiali, con colossi come STMicroelectronics o ASML, ma poco sviluppato nella produzione dei wafer, nell’assemblaggio e nel test del prodotto finito. Il vantaggio competitivo dell’Unione Europea è pertanto disomogeneo lungo la catena del valore e non consentirà a Bruxelles di raggiungere una autonomia a breve. La strategia migliore per l’Unione è quella di investire sui propri colli di bottiglia – in particolare le tecnologie di produzione EUVL di ASML – per mitigare gli effetti di una dipendenza che non possono essere interamente risolti dal solo Chips Act.

Il quadro che emerge da queste complicate relazioni è articolato e rende difficile fare previsioni accurate. Tuttavia, è evidente che 1) il ruolo della vecchia geopolitica degli stati-nazione sta tornando determinante, e 2) mere considerazioni di ottimizzazione dei costi industriali sono superate. Per i player del settore le operazioni di outsourcing e la distribuzione delle partnership produttive non potranno più essere considerate come parti di una singola catena, bensì come una rete immersa in un ambiente condizionato da rapporti economici e politici ai quali è vincolato.

*Paolo Acquaviva (Luiss Alumno) e Andrea Filippetti (CNR-Issirfa)

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