La nuova “vita” dei manager cinquantenni: più disposti a mettersi in gioco, più attrattivi per le aziende
Il mutamento di approccio che sta interessando una buona parte di questi lavoratori è una conferma della crescente importanza del lifelong learning
di Gianni Rusconi
4' di lettura
Definirlo un cambio di paradigma sembrerebbe improprio ma non lo è, anche solo per il fatto che vi sono diversi studi che ne certificano lo status di tendenza in via di consolidamento. L'oggetto di discussione sono le scelte di vita professionale dei manager e delle figure aziendali con età prossima alla fatidica soglia dei 50 anni e il loro ruolo in un mercato del lavoro che ha subito diverse trasformazioni.
Oggi il livello di attenzione per la valutazione delle prospettive di carriera si è infatti notevolmente alzato (non sono pochi i professionisti che hanno deciso di cogliere l'opportunità di spostarsi verso settori più promettenti rispetto a quello di competenza) e gli Hr manager devono fare i conti con fenomeni nuovi (e spesso dirompenti) come la Great Resignation o il Quite Quitting, la cui diffusione è stata accelerata con l'adozione forzata delle nuove tecnologie nel periodo di pandemia.
In questo scenario, i manager e i professionisti cinquantenni sono una sorta di cartina tornasole per misurare l'intensità di evoluzione del mercato e, al contempo, il mutamento di approccio che sta interessando una buona parte di questi lavoratori è una conferma della crescente importanza del lifelong learning.
Mauro Mancini, Associate Dean for Executive Education alla Graduate School of Management del Politecnico di Milano, focalizza come punto chiave della questione «il turnover delle figure senior, che non era tale fino a qualche anno fa. Gli effetti della corsa all'adozione del digitale da parte di molte organizzazioni non sono ancora pienamente comprensibili ma è indubbio che le opportunità di cambiare impiego e professione, e di avere una migliore gestione del worklife balance, sono oggi più sentite».
L'assunto da cui partire per analizzare il ruolo presente e futuro dei cinquantenni è lineare: manager e professionisti si stanno rimettendo in gioco e, in generale, ci si sta aprendo all'idea di un lavoro che può essere frazionato. Non è certo un caso che si parli sempre più spesso di “fractional management” e che tale modello (nato sulla spinta della domanda di organizzazioni di piccole dimensioni per le quali il classico temporary manager full time potrebbe risultare ridondante per tempi e costi) stia trovando applicazione tanto in Europa quanto negli Stati Uniti.
Ma dove sta il reale cambio di paradigma? Risiede nel ripensamento del concetto stesso di lavoro e nel venir meno dell'idea, per i cinquantenni, di potersi sedere e accontentare di quanto raccolto fino a oggi in termini di posizione, responsabilità e inquadramento economico. Si tratta di una tendenza positiva? Secondo Mancini non ci sono dubbi, lo è. «Ma serve che le diverse generazioni oggi presenti in azienda si parlino e collaborino. E questo salto in avanti culturale e organizzativo dovrebbe gestirlo in primis l'area HR e con essa il board».
Il cambiamento in atto, aggiunge ancora l'esperto, lo si vede del resto anche nelle aule della Graduate School of Management del Polimi, frequentate da una miscellanea di figure con curricula, incarichi ed esperienze (oltre che età e provenienza) anche molto diverse fra loro. «Apprendere e pensare all'opportunità di crescita professionale – chiude il ragionamento Mancini - è la chiave di volta anche per i 50enni e non solo per i giovani talenti di 25 anni. La tendenza al cambiamento è personale ma vi sono settori che più di altri, come l'energy e il comparto media per esempio, oggi più sensibili a questa tematica: c'è in ogni caso maggiore voglia di scommettere anche fra le figure apicali dell'organizzazione, perché le tematiche di business strategy o di digital transformation sono trasversali e permettono, lavorativamente parlando, di cambiare pelle. E vale, in tal senso, molto di più il fattore delle soft skill che la competenza specifica maturata in una singola industry».
Una tendenza positiva, si diceva, che ovviamente presenta anche un rovescio della medaglia rappresentato dal rischio che qualcuno possa rimanere indietro. I più esposti a questo rischio, secondo l’Associate Dean del Polimi, sono coloro che non vogliono cavalcare il cambiamento e non hanno il cosiddetto “learning mindset”, e cioè la predisposizione ad apprendere qualcosa di nuovo. La pandemia ha insegnato che il cambiamento viaggia veloce ed è per questo che la componente del lifelong learning diventa un asset da valorizzare. Non è quindi casuale che sempre più manager chiedano di rimettersi in gioco investendo in prima persona sui servizi di formazione a grande valore aggiunto, che stanno a loro volta trasformandosi in contenuto e formato.
Dal punto di vista delle aziende, si sta dunque delineando una grande opportunità per arricchire e rinfrescare gli organici mettendo sul tavolo “asset” che vanno ben oltre il fattore stipendio, non più così determinante come in passato perché non più il vero driver che porta alla scelta di cambiare azienda o professione. La convinzione di Mancini, tutt'altro che irrilevante, è che non si tratti di un fuoco di paglia o di una moda passeggera: «La prospettiva di allungamento della qualità della vita è comune sia al 30enne che al 50enne e si riflette nella volontà di crescere professionalmente, di spendere al meglio nelle scelte future il bagaglio di competenze acquisito e di trovare il perfetto equilibrio fra lavoro e tempo libero. Stiamo vivendo un fenomeno che non è indotto da una domanda di mercato, ma da una reale trasformazione sociale».
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