«La pace arriverà quando avremo uno Stato libero»
L’atleta palestinese Natali Shaheen era a Gerico allo scoppio della guerra e racconta come in Cisgiordania non ci si possa più muovere
di Monica D'Ascenzo
5' di lettura
«Gerico è lontana dalla Striscia di Gaza, ma stiamo vivendo la guerra di riflesso. Si ha paura di uscire, non si può andare a lavorare, non si possono vedere i familiari che vivono in altre città. I check point sono aumentati e si possono incontrare coloni israeliani armati. Molte persone in Cisgiordania, poi, hanno famiglia a Gaza e non ne hanno più notizie». Natali Shaheen, nata nel 1994 a Gerusalemme, è appena tornata in Italia da Gerico, dove era andata per un progetto di Athletes’ Table, associazione che porta lo sport nei territori palestinesi. «È scoppiato tutto all’improvviso e non potevo tornare. Ho perso l’aereo e ho dovuto aspettare giorni per poter arrivare in Giordania e da lì in Italia».
La nuova vita in Italia
In Italia era approdata per due stage nel 2015 e nel 2016 grazie all’associazione Ponti non muri, che si occupa della causa palestinese e lavora nello sport per i ragazzi e in un orfanotrofio. Nel 2018 con una borsa di studio del ministero degli Esteri italiano è arrivata per un dottorato di ricerca a Sassari, nel dipartimento di Scienze umanistiche e sociali. Una volta discussa la tesi, Shaheen è rimasta in Sardegna dove ha lavorato come allenatrice di calcio, ma soprattutto gioca nella squadra F.C. Athena Sassari Calcio a 5. Mentre oggi gioca con Real Sunservice e lavora in ufficio con l’azienda Piscine Arcobaleno.
Lei che in patria è stata la capitana della nazionale di calcio della Palestina e che quest’anno è stata premiata per la sezione “Sport e diritti umani” da Amnesty International Italia «per la sua determinazione e il suo impegno nella difesa dei diritti umani e del diritto allo sport, che dovrebbe essere accessibile a tutti, indipendentemente dalle condizioni economiche, sociali e di genere».
«In un sistema in cui la percezione e il giudizio sul calcio femminile stanno sicuramente cambiando, ma con ancora molti gli ostacoli da superare, Natali Shaheen si fa portavoce di un approccio allo sport privo di discriminazioni - ha commentato Riccardo Cucchi – Con un interessante confronto tra calcio femminile palestinese e italiano, Natali fa luce sulle evidenti difficoltà che le calciatrici devono affrontare quotidianamente; tramite il racconto della sua esperienza personale ha voluto incoraggiare tutte le donne a non smettere mai di credere in loro stesse e non perdere la fiducia».
Nel 2022 Natali Shaheen ha anche pubblicato il libro “Un calcio ai pregiudizi”, basato sulla sua tesi di laurea, che mostra le difficoltà economiche, culturali e politiche che le donne palestinesi devono affrontare per giocare a calcio. Nel libro, Shaheen ha raccolto testimonianze di calciatrici italiane e palestinesi per evidenziare le discriminazioni di genere e i pregiudizi che persistono sul campo e nella vita quotidiana. Ha anche sostenuto vari progetti dell’Associazione Ponti non Muri per creare un ponte tra la Sardegna e la Palestina attraverso la cultura e lo sport. I ricavi del suo libro sono stati donati all’Associazione per finanziare incontri educativi e allenamenti di calcio per ragazze e giovani donne in Palestina e in Sardegna, con l’obiettivo di promuovere il calcio femminile e l’empowerment delle ragazze e delle donne in comunità marginalizzate.
La vita in Palestina
I ricordi del suo Paese sono legati anche alle difficoltà nel poter seguire la sua passione: «A Gerico non c’era una squadra di calcio femminile e dovevo andare a Ramallah. Spostarci vuol dire affrontare i check point per uscire e per entrare e qualche volta anche check point volanti. E molte volte arrivavo che l’allenamento era già finito, altre invece non riuscivo a tornare a casa perché i check point erano chiusi e dovevo dormire da compagne, oppure arrivavo a casa a notte fonda» racconta Shaheen, che aggiunge: «All’inizio avevo paura perché avevo 14 anni e dovevo andare da sola in un pullmino da 7-8 persone. E ci sono state volte che sono stata vicino a esplosioni, ma non l’ho detto ai miei altrimenti non mi avrebbero più mandato a giocare».
Dal 2022 partecipa ai progetti dell’associazione Athletes’ Table tornando 3 volte all’anno nel Paese, dove insieme agli altri volontari organizza open day per calcio e basket, occupandosi dell’organizzaione e degli allenamenti. «L’ultima volta abbiamo fatto anche open day di arti marziali. Da quest’anno abbiamo realizzato anche un corso di arti marziali solo per le donne del campo profughi vicino a Gerico ed è stato un successo. Per noi significa tanto farle partecipare e stiamo progettando per loro altre attività» sottolinea l’atleta.
La guerra, però, ha cambiato profondamente anche la vita in Cisgiordania mettendo in pericolo i progetti futuri: «Sono aumentati i check point e anche chi deve spostarsi per lavoro deve calcolare 2-3 ore di attesa in più. Mio padre doveva fare un intervento urgente e doveva fare un controllo a Ramallah, è rimasto al check point due ore. La seconda volta è partito alle 4 di mattina per poter arrivare in tempo alla visita» sottolinea Shaheen, proseguendo: «Le persone non possono lavorare, non ricevono stipendi e l’economia sta andando a rotoli».
E già nell’ultima visita, un mese fa, Shaheen ha dovuto fare i conti con una realtà diversa: «Volevo andare a far visita alle mie sorelle e alle compagne di squadra che vivono a Betlemme, ma non mi è stato possibile. E ora ho perso la speranza di tornare per un po’ vista la situazione» chiosa.
Il pensiero a Gaza
Il pensiero di Gaza aleggia su tutti i discorsi di Shaheen, che con sguardo profondo racconta di come nel bombardamento israeliano della chiesa greco-ortodossa di San Porfirio siano morti i tre nipotini di una sua amica di Gerico: «Non possiamo immaginare le cose che stanno accadendo a Gaza, non c’è pietà, stanno morendo e nessuno fa niente. Tanta gente è rimasta senza figli, senza genitori, senza casa, senza cibo, senza acqua. Non vengono riconosciuti loro neanche i diritti di base. Li stanno trattando come se non fossero esseri umani. Siamo di fronte a un genocidio. I bambini stanno al buio ad aspettare e sanno che possono morire da un momento all’altro. Ci chiedono se condanniamo Hamas, ma negli ultimi 75 anni nessuno ha chiesto agli israeliani se condannano i loro concittadini che hanno bruciato le nostre case o ucciso palestinesi».
E poi racconta un aneddoto personale: «In Italia non sono riuscita neanche a fare una scheda telefonica, perché sono nata a Gerusalemme, ma nel sistema Gerusalemme è riconosciuta solo come città israeliana. La parte di città dove sono nata io non esiste».
Dopo il 7 ottobre sarà mai possibile la pace? «Il popolo palestinese vuole essere libero e avere un proprio Stato, un proprio territorio e propri diritti. Finché non ci sarà libertà non ci sarà pace. Le tregue lasciano il tempo che trovano, come abbiamo visto negli ultimi 75 anni».
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