La parità nel lavoro, una partita da 28mila miliardi di dollari
La parità nel mondo del lavoro vale a livello globale 28mila miliardi di dollari di prodotto interno lordo. La stima era di McKinsey, ma esercizi simili sono stati provati da istituzioni pubbliche e private per dare un valore economico a una mancanza: quella dell’occupazione femminile. Andrebbe aggiunto l’aggettivo “retribuita”, dal momento che nel conteggio del contributo femminile ai Pil nazionali non si tiene conto dei lavori di cura non retribuiti, che secondo l’Ocse sono a carico delle donne per il 300% in più rispetto agli uomini.
di Monica D'Ascenzo
I punti chiave
3' di lettura
La parità nel mondo del lavoro vale a livello globale 28mila miliardi di dollari di prodotto interno lordo. La stima era di McKinsey, ma esercizi simili sono stati provati da istituzioni pubbliche e private per dare un valore economico a una mancanza: quella dell’occupazione femminile. Andrebbe aggiunto l’aggettivo “retribuita”, dal momento che nel conteggio del contributo femminile ai Pil nazionali non si tiene conto dei lavori di cura non retribuiti, che secondo l’Ocse sono a carico delle donne per il 300% in più rispetto agli uomini.
Basterebbe farne una questione economica per comprendere quanto il tema non sia di nicchia o non riguardi una minoranza. Gli studi in questa direzione sono cresciuti negli ultimi decenni e hanno contribuito a cambiare le strategie non solo politiche di molti
Paesi, ma anche aziendali.
Il Global Gender Gap Index
La bussola a livello internazionale è senz’altro il Global Gender Gap Index, elaborato dal World Economic Forum, che ci aggiorna annualmente sui progressi (o sui passi indietro) fatti in direzione di una parità di genere non solo lavorativa, ma anche di partecipazione politica, sanitaria e di educazione scolastica. L’analisi su 146 Paesi al mondo ci ha ricordato quest’anno che saranno necessari altri 131 anni per chiudere il divario fra uomini e donne proseguendo di questo passo.
Dove sono le donne ai vertici?
Il gap più ampio è quello nella rappresentanza politica. «Where are the women of the world?». Dove sono le donne? Cyril Ramaphosa, premier del Sud Africa ha additato l’elefante nella stanza nel suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite di settimana scorsa. Il colpo d’occhio dei presenti non lasciava scampo: dei 193 Paesi, solo 21 speaker erano donne. Di queste, sei sono capi di Stato, quattro capi di governo, nove ministre, una è vice presidente e una vice premier. D’altra parte al mondo solo 13 Stati sono a guida femminile (dati Council on Foreign Relations), cioè il 10% sul totale dei membri delle Nazioni Unite.
La rappresentanza femminile ai vertici è un problema che la politica ha in comune con l’economia. Basta pensare che fra le società che fanno parte della lista Fortune 500, le più grandi imprese americane per fatturato, solo poco più del 10% hanno una donna come ceo (53 aziende). In Europa va ancora peggio: le amministratrici delegate sono solo il 7%, secondo l’European Women on Board.
Il gender pay gap
Se il soffitto di cristallo resiste, non ci sono grandi novità neanche in tutta la pipeline della carriera lavorativa, che si parli di università, banche, imprese, studi legali, società di consulenza. Anche dove, con programmi specifici, si è aumentata nel tempo la percentuale di ingresso di donne, ai vertici la presenza femminile resta esigua. A questo si somma l’annoso problema del gender pay gap: le buste paga delle donne restano più leggere di quelle dei colleghi.
Al tema della carriera e in particolar modo alla differenza salariale la neo Nobel per l’economia Claudia Goldin ha dedicato studi da oltre vent’anni e fatto analisi granulari per comprendere dove fosse e quale fosse il problema. «In termini di divario retributivo di genere, non c’è dubbio che ci sia una discriminazione, che ci siano manager prevenuti. Ci sono persone cattive in giro. Possiamo parlarne all’infinito. Sono ovunque e dovremmo sbarazzarcene. Ma anche se lo facessimo, avremmo comunque un problema sistemico» sottolinea l’economista in un’intervista recente all’Ft, aggiungendo: «Il punto è che uno studio dopo l’altro mostra come la differenza più grande tra uomini e donne, in particolare tra coloro che hanno una laurea e oltre, risieda nel fatto che le donne tendono a fare di più nei lavori di cura».
Gli ultimi dati, riportati da «Forbes», indicano che la differenza retributiva di genere a livello globale sia pari al 17 per cento. Una ventenne che oggi entra a tempo pieno nel mondo del lavoro guadagnerà in una carriera di 40 anni 407.760 dollari in meno del collega a parità di ruoli e mansioni. Un divario che pesa anche sulle famiglie e a cascata sulla scelta di avere figli. La forbice, infatti, si amplia quando le donne arrivano alla maternità, come ha sottolineato Goldin. Secondo gli studi di quest’ultima il divario salariale di genere negli Stati Uniti è maggiore per le donne intorno ai 30 anni, vale a dire negli anni
di maggiore fertilità.
Verso il cambiamento
La soluzione? Goldin ritiene che «il cambiamento debba venire dagli uomini e non dalle donne». D’altra parte sono gli uomini che detengono ancora le leve del potere, che sia politico o manageriale, e sono loro che possono cambiare le regole del gioco: per creare maggiore ricchezza per tutti, per combattere il rischio di povertà delle famiglie in cui lavora solo un genitore, per ridare slancio alla natalità ormai al palo nei Paesi occidentali. E che il tema sia centrale lo dimostra, se ce ne fosse bisogno, il nobel per l’economia assegnato a Claudia Goldin.
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