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La performance nello spazio museale: cosa resta?

Come il museo deve prendersi cura di qualcosa che non è un oggetto, che non è materia che deve essere riformulato per le generazioni future

di Maria Adelaide Marchesoni

Michelangelo Pistoletto - Twenty Six Less One, 2018, performance, MAC, Museo de Arte Contemporaneo, Santiago de Chile. Ph Francisco Bas

3' di lettura

Malgrado il significato cruciale della performance sia riconosciuto nell'ambito della storia dell'arte contemporanea e molteplici pratiche performative facciano ormai parte della programmazione di molti musei, la sua presenza nelle collezioni e negli archivi continua a porre delle sfide, ampliate dall'emergenza pandemica che ha compromesso l'attuabilità delle pratiche artistiche “dal vivo”. Occorre poi sottolineare che solo il 40% dei musei italiani presenta nelle proprie collezioni opere di arte performativa, che in tre quarti dei casi costituiscono solo l'1% del patrimonio complessivo e, nonostante sempre più spesso il genere figuri nelle programmazioni culturali, la strada per la sua istituzionalizzazione è ancora lunga. Questo aspetto ci mostra un altro dato molto interessante e ci racconta una sorta di scollamento tra quella che è l'identità ad oggi dei musei attraverso le loro collezioni e l'identità che si va costruendo attraverso le attività espositive e degli eventi collaterali.

La riattivazione della performance

Riportare in vita non solo un atto performativo, ma anche ricreare in un contesto neutro come quello del museo la situazione dove è stata concepita l'opera con una fedele esecuzione non è un'operazione semplice. La questione principale su come i musei si confrontano quando entra in gioco la messa in scena di una performance è il tema del re- enactement ovvero come le performance, soprattutto quelle storiche, possano essere trasmesse conservate e riproposte nell'ambito della programmazione attuale. Nell'intervento alla giornata AMACI di Bartolomeo Pietromarchi, direttore MAXXI Arte, è stato affrontato questo aspetto, che negli ultimi anni ha animato la discussione a livello internazionale e sul quale i direttori dei musei si sono confrontati e hanno sviluppato una serie di linee guida, ove possibile in collaborazione con gli stessi artisti, cercando nello studio dei documenti ciò che è rimasto per poter comprendere la possibilità di come realizzare delle re-enactment, nel caso non fosse possibile lasciare alla documentazione fotografica, video o testuale il semplice racconto dell'esperienza. Queste linee guida, per il direttore del MAXXI Arte, rappresentano un passo avanti, soprattutto, per gli artisti che si avvicinano alla performance che hanno una consapevolezza maggiore rispetto ai loro predecessori degli anni ’60 e ’70, dove l'idea della trasmissione non era al centro delle preoccupazione degli artisti. Oggi si assiste a una maggior consapevolezza di cosa resta, di cosa può essere trasmesso e di come gli artisti già durante la progettazione della perfomance siano orientati a questioni di conservazione.

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Michelangelo Pistoletto - Twenty Six Less One, 2018, performance, MAC, Museo de Arte Contemporaneo, Santiago de Chile. Ph Francisco Bas

La visione degli artisti

Michelangelo Pistoletto, tra gli artisti intervenuti alla giornata AMACI, sottolinea che in passato le pratiche più performative erano considerate non collezionabili o complesse da essere collezionate e, soprattutto negli anni '60 e ’70, il maestro biellese ha ricordato esserci stata anche una dimensione politica e la volontà di disconoscere il mercato: insomma far sì che queste opere fossero dematerializzate, era un modo di abdicare alla produzione di un oggetto. Mentre oggi assistiamo paradossalmente ad un momento nel quale le istituzioni tendono ad abbracciare quella che era una forma di resistenza. La performance oggi è diventata una forma espressiva che fa gioco al sistema dell'arte in funzione della sua trasmissione, una forma effimera che può sopravvivere anche a prescindere dalla presenza dell'artista.

L'esperienza del MAMbo di Bologna

La possibilità di replicare un atto effimero come la performance non può che avvenire grazie alla documentazione precisa e puntuale che si ha a disposizione, sulla quale avviene lo studio e la preparazione. La raccolta di documentazione fatta in questo modo permette, quindi, non solo di conservare ed archiviare un'opera che altrimenti cadrebbe nell'oblio, ma anche di metterla a disposizione di tutti per poter essere studiata ed eventualmente replicata. Tra gli interventi della giornata AMACI, Uliana Pierina Zanetti, responsabile attività espositiva e Collezioni del MAMbo – Museo d'arte moderna di Bologna ha presentato la nuova sezione della collezione permanente dedicata alle «Settimane Internazionali della Performance» che si tennero tra il 1977 e il 1982, realizzata integrando la propria documentazione con immagini, documenti, filmati provenienti dagli archivi di altre istituzioni pubbliche e da raccolte private. Curate da Renato Barilli, Francesca Alinovi e Roberto Daolio, le «Settimane» suscitarono fin da subito uno straordinario interesse sia per la presenza di artisti già famosi o destinati ad avere un'ampia notorietà internazionale in seguito, sia per le reazioni in seguito ad alcune performance realizzate. Tra i 49 artisti che presero parte alla prima edizione del 1977 vi erano, tra gli altri Marina Abramović e Ulay, Laurie Anderson, Vincenzo Agnetti, Renate Bertlmann, Giuseppe Chiari, Robert Kushner, Suzanne Lacy, Fabio Mauri, Hermann Nitsch, Luigi Ontani, Luca Patella, Vettor Pisani, Fabrizio Plessi e Christina Kubisch, Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian, Michele Sambin, Franco Vaccari. Un'operazione resa particolarmente impegnativa dalle difficoltà legate all'obsolescenza tecnologica, dalla fragilità e rarità dei materiali e dalla necessità di trovare la sintesi in una narrazione potenzialmente vastissima. Un’operazione che restiuisce durata a un atto transitorio, che oggi trova il consenso e la consapevolezza tra gli artisti, ma allora?

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