La pista sul futuro in una terra che non decolla
di Giuseppe Lupo
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Sarà colpa del caldo estivo, ma il fronte dei calanchi è di un giallo che spinge all’inerzia, come se la piana di Pisticci, in questa zona di Basilicata indecisa tra un’appartenenza appenninica e la tentazione del mar Jonio, voglia manifestare - nella conformazione del terreno argilloso, nella mancanza di rilievi, nell’assenza di correnti d’aria - una specie di apatia verso il trascorrere del tempo, un’indifferenza per tutto ciò che potrebbe suscitare l’impressione di movimento.
Fiumi di polvere
La Basentana è l’unica grande arteria capace di mettere in collegamento l’entroterra con il mare, che dista una ventina di chilometri a sud. Di fianco scorre parallela la ferrovia che collega Metaponto con Potenza, ma sappiamo che nessun treno la percorrerà e i centri urbani in cima alle colline friabili, Grassano, Ferrandina, Grottole, Calvello, paiono muti testimoni di una paralisi che qui assume l’aspetto del Basento: una plaga di sassi, una pianura dentro la pianura, che somiglia a uno di quei «fiumi di polvere», di cui scrisse Leonardo Sinisgalli ottant’anni fa.
Nel 2010 Rocco Papaleo è passato da queste parti per girare il film «Basilicata coast to coast». Arrivato alle case di Craco, che una frana accentuata dagli impianti fognari ha costretto all’abbandono, ha pronunciato una massima che vale come paradigma: «Non ha retto la modernità».
Come Craco, anche la piana di Pisticci sembra manifestare un’inconsapevole avversione al moderno. Eppure non mancano tradizioni imprenditoriali di una certa rilevanza. Qui si continua a produrre l’Amaro Lucano, inventato dal cavalier Pasquale Vena nel 1894, e poco più a nord si scorgono i capannoni utilizzati per la fabbricazione di divani e poltrone, che nell’ultimo scorcio del secolo scorso hanno inserito la città di Matera nel cosiddetto distretto del salotto. Siamo davvero nel cuore di quella Basilicata ieratica e bizantina, che si manifesta nei visi, nelle inflessioni dialettali, nell’antropologia di un quotidiano che tende alla conservazione anziché all’esperimento.
Il “sogno” di Mattei
Il paesaggio potrebbe non essere mutato rispetto a come lo osservò Enrico Mattei alla soglie del miracolo economico, prefigurando un’oasi tecnologica dentro un comprensorio di terre da cui non poter fare altro che emigrare: uguali i colori, uguale il silenzio, interrotto dalle automobili che transitano sulla Basentana e che all’epoca in cui quest’uomo arrivò dal Nord Italia nemmeno esisteva.
È probabile che nell’apparente refrattarietà si nasconda il senso di una lotta sotterranea tra il tempo che chiede di transitare e lo spazio geografico che invece protegge tutto quanto resiste alla tentazione di modificarsi. La piana è uno dei tanti crocevia di una regione dove la spinta al moderno e il rifiuto del moderno si attraggono e si allontanano, ingaggiano un duello di cui nessuno conosce l’esito ma che ha il potere di segnare il destino di un territorio in cui ciò che sopravvive dell’ex area Anic appare come un’isola di civiltà arrivata da altri mondi.
Nessuno può dire che sia stata questa la prima impressione, però è certo che nel 1962, quando gli impianti chimici entrarono in azione e diedero lavoro a cinquemila occupati nel momento di massima espansione, la popolazione non provò difficoltà a interagire con fumi, sfiatatoi, cisterne. Erano anni di partenze senza ritorni e la prospettiva di restare a vivere nel luogo dove si era nati convinse gli abitanti ad accettarne la presenza. Oggi forse non sarebbe stato così. Un’altra coscienza ecologica avrebbe reso più problematico il rapporto, tant’è che a pochi passi da qui, in Val d’Agri, i pozzi petroliferi di Eni e Total raccolgono ostilità più che consenso. Ma anche questo è un segno dei tempi.
Nell’Italia del miracolo economico il bisogno di elevarsi economicamente determinò un tipo di approccio che qui assunse i contorni di una grande avventura tecnologica, capace di regalare quelle forme di vita evoluta che si manifestava attraverso la mensa aziendale, l’infermeria, la nursery, il villaggio Snam con alloggi per dipendenti e dotato di strutture per praticare il tennis, il calcio, il basket. Percorrendo le strade del quartiere, intitolate alle città italiane segnate dalla presenza dell’Eni, si avverte la sensazione di trovarsi al centro di un set cinematografico, un agglomerato di palazzine la cui natura poteva risultare artificiale rispetto alla conformazione architettonica dei paesi.
Paradosso cronologico
Ma il paradosso sta soprattutto nella cronologia. Un’ipotesi di civiltà industriale cominciò a soffiare proprio mentre l’inchiesta di Ernesto De Martino giungeva nelle librerie italiane con un titolo - Sud e magia (1959) - che avrebbe attribuito al Mezzogiorno un’immagine irrazionale o a-razionale, magica appunto, ma nel significato deteriore del termine, segnando una frattura con l’icona di una Lucania immobile e laconica, fuori dalle rotte della Storia, a cui molto aveva contribuito Carlo Levi con Cristo si è fermato a Eboli (1945).
Ci voleva un uomo di altre geografie per capovolgere questa chiave interpretativa e il desiderio di costruire uno dei centri chimici più importanti del tempo magari assunse i caratteri di una macroscopica contraddizione, però determinò un cambio nella percezione del nuovo.
Il processo di sviluppo seguì una sua stratificazione: il metanolo fu utilizzato per ottenere prima la fibra acrilica, poi la fibra poliammidica, infine la fibra poliestere. L’Anic si estese a cerchi sempre più larghi, dotandosi di silos, di tubi collettori dove far passare l’acqua, di una centrale termoelettrica, che oggi è un rudere e di cui solo la ciminiera conserva una sua dignità nel rappresentare un avamposto tecnologico, sia pure in disuso. A vederla dall’alto, in una delle fotografie utilizzate dai tecnici prima ancora che fosse operativa, l’area ha la fisionomia di un accampamento romano. Il terreno sembra diviso in piccoli lotti, ciascuno occupato dagli impianti. Tale si presenta ancora oggi: una scacchiera collegata da condotte sopraelevate, poste a non più di tre o quattro metri da terra, sotto cui corrono sia il reticolo di strade asfaltate, sia i binari che all’epoca erano utilizzati per le operazioni di carico e scarico.
Sul fianco destro, dalla parte opposta rispetto al letto del Basento, si allunga l’asfalto della pista costruita per il decollo e l’atterraggio di aerei. Non è più in uso da decenni, probabilmente da quando l’avventura chimica ha subito una battuta d’arresto, verso la metà degli anni 80, e gli impianti sono stati ceduti a società italiane e straniere che ora sono inserite in un Parco tecnologico e trasformano le scorie in energia elettrica. Nonostante le erbacce ai bordi, la pista Mattei è un altro segnale delle ambizioni che dettavano le regole negli anni 60, un esempio del progettare in grande, dello spingersi un passo più avanti di quel che si pensava fosse semplicemente futuro e invece si sarebbe rivelato una clamorosa scommessa con una tradizione millenaria di marginalità.
L’imponente nastro grigio svolge la funzione di un’illusione ottica: si ammira la lunghezza (millequattrocento metri), ma si resta sconcertati dall’incredulo straniamento che è tipico di un dialogo tra linguaggi apparentemente inconciliabili. La pista fra i calanchi può essere un indizio di questi linguaggi inconciliabili, un messaggio in bottiglia lanciato nel grande mare della dimenticanza. La letteratura di quegli anni avrebbe continuato a narrarci la retorica di una Basilicata fuori dalla civiltà, relegata in un dimensione rurale. E invece la civiltà era arrivata. I poeti, gli scrittori non se n’erano accorti.
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