La poesia, un atto di verità
di Carlo Ossola
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Una vastissima geografia di nomi, in un arco che va dalla fine della seconda Guerra mondiale agli anni Settanta; più di novecento lettere di Bonnefoy,quarantanove corrispondenti: imprese letterarie e scelte di vita, la verità dell’autentico. Raramente un epistolario entra così nel vivo di un secolo, ritrova linee di forza, porta il vissuto nella storia del mondo e questa nell’interrogazione costante del sé: «[…] Noi viviamo tutti in una sorta di doppio gioco. Migliaia di esseri, nel mondo, e ogni giorno, muoiono di fame, patiscono ingiustizia e violenza. E se noi volessimo veramente obbedire all’appello della verità con l’intensità, il radicalismo che la semplice solidarietà umana richiede, e che ciò che noi chiamiamo poesia esige, dovremmo “quitter l'Europe”, come ha detto Rimbaud, che sia per combattere con i diseredati se lo si può, che sia almeno per lavorare alla loro formazione, al loro sostentamento, etc. Ora, noi non lo facciamo. Noi continuiamo a condurre la nostra confortevole vita, a viaggiare, a scrivere in una lingua che non è accessibile che ai benestanti» (lettera a André du Bouchet, del 9.10. 1971).
Ma la creazione, non meno, ha la stessa forza d’appello, anche quando essa si eserciti su terreni che paiono lontani dall’esperienza del poeta, poiché anche qui è il primato del “vero” che si manifesta nell’altrui scrittura: «Anche se lei non mi avesse inviato questo libro [L’Emploi du temps, 1956], caro amico, anche se non avessi trovato in capo al libro stesso i versi di Dante, nei quali mi sono sentito a lei così vicino, anche se non l’avessi mai incontrata, le scriverei lo stesso stasera perché non posso resistere al desiderio di rispondere alla verità che lei esprime se non con un gesto d’adesione» (lettera a Michel Butor del 26.9.1956).
Da queste lettere emerge soprattutto quella quête di un luogo autentico, espresso del resto in Dévotion, nel quale ciascuno respiri al punto più vicino della trasparenza dell’essere - come Bonnefoy si esprime in un’intervista -; non solo un Arrière-pays ma un punto di adesione al creato; e questo fu, per lunghi anni, Valsaintes, in alta Provenza, quel luogo di silenzio, di pietre, di nubi, di cui parla L'Épervier: «Son anni ormai, / A V.[alsaintes] / il tempo abbiam visto venire innanzi a noi / che guardavamo dalla finestra aperta / della camera sopra la cappella. / Era uno sparviero / che riandava al suo nido nel cavo del muro. / Nel becco un serpente morto. / Quando ci vide / gridò di collera e di pura angoscia / ma senza cedere la preda, e immobile / nella luce dell'alba / formò con essa il segno stesso / del principio, del mezzo e della fine». Tale fu Valsaintes, come il poeta si esprime in una lettera a Boris de Schloezer: «Mi guarda la Vergine che abbiamo collocato davanti a un muro che i monaci d’un tempo avevano coperto d’intagli per marcare, rapacemente suppongo, i loro sacchi di segala o di grano. […] Dimenticavo di dirle che questa terra è piena di grandi pietre rotonde, massicce, come dei pani lasciati dagli dei. Non voglia prendere l’immagine per della cattiva letteratura. Col tempo, o nella dissoluzione del tempo, così si finiscono per vedere le cose. C’è un po’ di Parnaso da queste parti» (lettera del 17 .7.1969).
Nel dialogo con i poeti non si manifestano soltanto complicità, progetti di riviste, di incontri, di coscienza critica rispetto al proprio tempo; c’è talvolta anche l’esame severo, le riserve, la recensione serrata, come testimonia questa lettera di Pierre Jean Jouve a Bonnefoy: «Il suo libro [Hier régnant désert, 1958] contiene molta vera poesia; e soprattutto si situa interamente in un mondo di poesia. […] Ma, da vecchio amico, m’inquieta il vedere la “cosa mortuaria” prendere, nella sua poesia, tanto peso. E temo che un’ossessione caparbia non venga ad inghiottire l’opera. E non abbia troppa fiducia nel successo che questo spirito funebre potrebbe incontrare, in un tempo affamato di distruzione» (lettera del 3 giugno 1958). Non sappiamo quale fu – se ci fu – la risposta di Bonnefoy, ma è indubbio che, da allora, il Leitmotiv della “presenza” ha preso il sopravvento nella poesia di Bonnefoy: «E per te che t’allontani pensando, / Qui diviene laggiù senza cessar d’essere» (Passant, ce sont des mots, da Les planches courbes, 2001); presenza anche deietta, ma sempre preferita alla gnosi che astrae: «Come del grano, come una spiga di cielo / che deve a lungo marcire nel fango del mondo» (Une pierre [Ils aimaient ce miroir], da Ce qui fut sans lumière, 1987).
I due curatori hanno con acutezza osservato, nella loro introduzione, quanto questo epistolario illumini e accompagni le grandi nervature della poesia di Bonnefoy, né mancano dichiarazioni di poetica che ci sono preziose: «Sento questa deviazione dalla chiarezza necessaria della parola come la necessità di un punto di vista più distante che, se non per me almeno per la poesia in generale, è l’essenziale»; ma subito precisando: «Non posso mai separare la scrittura da ciò che incontro, sperimento, accetto o rimpiango nella vita, anche se nessun legame immediato tra l’una e l’altra sembra stabilirsi» (Lettera a Boris de Schloezer del 29.9. 1969).
L’epistolario infine mette in miglior luce non solo i legami costanti di Bonnefoy con la pittura e gli artisti ch’egli sentiva prossimi (e di cui testimonia largamente la sua opera), ma anche con la musica percepita nel suo integrarsi al flusso ritmico del creato: «L’essenziale di ciò che le debbo raccontare, caro Boris, è il concerto che abbiamo ascoltato l’altro giorno, se il termine è ancora congruo: di Stockhausen, alla Fondazione Maeght a Saint-Paul. Avrà forse letto dei resoconti. Ma è ben difficile restituire il senso dello spazio notturno, con le chiome vicine e animali d’ogni parte, civette dal gridìo lontano e grilli, quale risorgeva dal grembo di quella musica come più vasto d’essa, avvertita infatti da crepe, lacune, sprofondamenti, e varietà di silenzi che la nostra natura non ha. I musici erano dislocati in un vasto emiciclo, e gli strumenti si rispondevano da una distanza veramente percepita, e veramente piena d’allarmi, e come ricondotta a una sorta di terrore e d’anonimato primitivi, da un tempo nel quale il suono appena cominciava a distinguersi dal rumore. L’opera ha titolo Spirale. E vede bene che l’ho trovata molto bella: con questa riserva, che non concepisco come questa cerimonia dell’immediato e dell’informe, non certo direttamente prodotti, ma interrogati sul terreno del cielo stellato e dei pendìi, possa assumere senso in una sala di concerto» (lettera a Boris de Schloezer, del 3 agosto 1969).
Ben prima della «Pléiade», ora finalmente in uscita, l’Italia ha giustamente consacrato a Bonnefoy un «Meridiano» nel 2010; ma l’ultima, profonda e vibrante, stagione poetica che è seguita (Ensemble encore, suivi de Perambulans in noctem, 2016) e le illuminazioni che vengono da questo Epistolario chiedono che quel volume venga integrato nei testi e rimeditato nei commenti. Lasciare l’opera ferma a quella data darebbe il disagio di una mutila incompiutezza che ci fornirebbe, per Eliot, The Waste Land senza il trasalimento dei Four Quartets. Bonnefoy stesso vi accede in una delle sue ultime poesie: «E bellezza, è amare, è verità / Che vi prenderà nelle braccia, anche qui / Ove desiderare è un po' esser liberi» (Nisida, da Ensemble encore).
Yves Bonnefoy, Correspondance, a cura di Odile Bombarde e Patrick Labarthe, Paris, Les Belles Lettres, vol. I, pagg. 1.156, € 26,90
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