La politica di coesione cerca un nuovo ruolo per restare rilevante dopo il 2027
La transizione verde e digitale e la crisi demografica mettono a rischio le regioni più povere dell’Unione
di Fiorella Lavorgna
I punti chiave
5' di lettura
«La politica di coesione è una politica di crescita o redistribuzione?». Il Next Generation Eu ha posto l’Europa delle regioni di fronte ad un bivio e la commissaria Elisa Ferreira, responsabile delle politiche regionali dell’esecutivo Ue, ha costituito un gruppo di esperti che nel corso di quest’anno discuterà del futuro della politica di coesione, guardando oltre il 2027.
II panel di dodici esperti provenienti dal mondo accademico, dalla politica, dalle istituzioni e società civile cercherà una formula per rendere più resilienti le regioni e modernizzare la politica di coesione, una delle più importanti dell’Unione insieme a quella agricola, che assorbe circa un terzo del bilancio. La più grande politica di redistribuzione dell'Ue, che si caratterizza per il suo approccio place-based, è infatti messa ormai da mesi in discussione dal cosiddetto metodo Pnrr, che predilige una gestione dei fondi centralizzata e condizionata alla realizzazione di riforme strutturali. Tra gli esperti che alla fine dell'anno presenteranno le loro conclusioni e raccomandazioni alla Commissione anche due italiani: Riccardo Crescenzi professore di geografia London School of Economics, ed Enrico Rossi, ex presidente della Regione Toscana.
Le spinte verso la polarizzazione delle disuguaglianze
Cambiamento climatico, transizione green e digitale, invecchiamento della popolazione: di fronte a queste e alle altre sfide che lattendono, l’Europa delle regioni appare spaccata in due. Da un lato, le regioni più ricche, tendenzialmente quelle più urbanizzate e dinamiche, che sono già pronte a trarre vantaggio dalla trasformazione industriale e dalla creazione di nuove figure professionali derivanti dalla transizione ecologica. Dall'altra le più povere che, nonostante gli importanti aiuti europei che già ricevono, rischiano di diventare ancor più marginalizzate. I cambiamenti climatici trasformeranno interi settori come quello dell’agricoltura, mentre la transizione ecologica comporterà la dismissione di industrie – come quella del carbone – a tradizione centenaria fortemente radicate sul territorio anche a livello culturale. Il calo demografico e il conseguente invecchiamento della popolazione - come è stato sottolineato nel corso del secondo dei nove incontri previsti - renderà l’accesso a servizi essenziali – come le cure sanitarie e l’istruzione – sempre più difficile nelle aree rurali, e dato che i migranti tendono a trasferirsi nelle città piuttosto che nelle aree rurali, non si prevede che questo fenomeno possa essere corretto dai flussi migratori. I dati illustrati nei primi due incontri del panel mostrano che saranno le regioni più povere a subire gli effetti più negativi di queste trasformazioni. Mentre le opportunità collegate a questi processi verranno colte dalle regioni già orientate all’innovazione.
Il futuro della politica di coesione dopo il 2027
Il compito di combattere le disuguaglianze e correggere gli squilibri di mercato è stato fino ad oggi proprio della coesione. Come per il Pnrr, uno dei pilastri dell'Accordo di partenariato 2021-2027 è la transizione verde, ma la politica di coesione prevede ad oggi un solo strumento specifico per mitigare gli effetti avversi della transizione ecologica, il Just Transition Fund. Questo fondo ha sia una dotazione limitata (19 miliardi in totale, di cui circa un milione di euro all'Italia per il Sulcis e per Taranto) sia obiettivi circoscritti: compensare quelle aree in cui si stima saranno persi più posti di lavoro. Tuttavia, come segnalato nell'ultimo rapporto Ocse sulla transizione della manifattura, le esternalità negative della transizione green non hanno solo effetti diretti, ma rischiano di danneggiare l'economia di intere regioni. Dunque sarebbe necessario concepire la transizione all'interno di programmi di sviluppo regionali che individuino nuove opportunità di sviluppo per il territorio e la formazione – anche low skill – della forza lavoro. Bisogna poi considerare che è probabile che nei prossimi anni potremmo assistere ad un'accelerazione di questi processi, poiché, come segnalato dall'Agenzia Europea per il clima al gruppo di lavoro, se l'Unione europea intende rispettare gli impegni fissati per il 2030 e 2050 relativi ai tagli delle emissioni di carbonio, si dovrà accelerare più del doppio il passo.
Si tratta quindi di decidere quale modello di sviluppo sia più adatto a garantire la tenuta delle regioni che non sono ancora pronte ad affrontare i processi di transizione. Se fino ad oggi si è imposto l'approccio place-based, ora quel modello è messo in discussione dai nuovi strumenti a disposizione. Durante i primi due incontri diversi esperti del mondo dell'accademia hanno lodato il metodo – legato al conseguimento di target e obiettivi – del Recovery fund, indicandolo come più adatto a stimolare l'innovazione e la crescita su tutto il territorio e salvaguardare il modello sociale europeo. Secondo Michael Storper – professore di sociologia economica all'università Sciences Po - per poter finanziare anche le politiche redistributive, e aiutare le regioni più svantaggiate, l'Ue deve puntare sull'innovazione tecnologica per poter tornare a crescere.
La commissaria Ferreira rivendica strenuamente la centralità della politica di coesione, difendendone il principio di solidarietà al quale si ispira e sottolineandone la centralità anche nei momenti di crisi come lo scoppio della pandemia e la crisi dei rifugiati. Tuttavia, come emerge anche dall'ottavo rapporto sulla coesione pubblicato lo scorso anno, la politica di coesione ha sì migliorato la condizione delle regioni più povere, ma molte delle regioni in transizione non sono riuscite a fare “il salto” e si trovano nella trappola dello sviluppo. È la ragione per la quale in Italia quattro regioni (Marche, Umbria, Molise e Sardegna) nella programmazione 2021-2027 sono addirittura retrocesse di categoria. Anche all'interno degli stessi territori, la forbice tra chi ha di più e chi meno si allarga sempre di più, specie all'interno delle grandi metropoli, mentre si è assistito ad un processo di convergenza tra Stati membri.
«È molto pericoloso per noi dire che gli obiettivi che ci stiamo dando debbano essere perseguiti con il metodo del Recovey fund, perché questo distruggerà la politica di coesione. Ma il nostro scopo non è nemmeno quello di difendere la coesione» ha affermato in chiusura della seconda giornata Karl Heinz Lambertz, politico belga membro e del panel di lavoro.
I primi suggerimenti
Andrés Rodríguez-Pose, professore di geografia economica e chair del panel ha domandato più volte agli esperti intervenuti – spesso non esperti di politica di coesione ma di crescita e transizione ecologica – su quale potesse essere il valore aggiunto della politica di coesione nell'affrontare queste sfide, o per lo meno, come può essere possibile migliorarla. Ecco le risposte, sintetizzate in sei punti dallo stesso Rodríguez-Pose al termine del secondo incontro:
1) Eliminare i colli di bottiglia. Per essere efficace la politica di coesione del dopo 2027 deve essere in grado di eliminare le barriere – spesso burocratiche - che impediscono alle regioni marginalizzate di esprimere il proprio potenziale economico;
2) Sperimentare di più a livello di politiche per l'innovazione e allo stesso tempo monitorare che vi sia corrispondenza tra quanto viene deciso a Bruxelles e l'attuazione a livello nazionale;
3) Incidere sulla cultura delle istituzioni, cercando di migliorarle seguendo il modello nord-europeo;
4) Farsi promotore di network sul territorio– ad esempio per connettere le città impegnate nei processi di transizione ecologica - per mobilitare il potenziale delle regioni più svantaggiate;
5) Creare un interesse economico intorno allo sviluppo delle regioni più svantaggiate, consapevoli dei rischi politici dell'impoverimento di queste regioni, soprattutto per quanto riguarda il consenso per la transizione ecologica;
6) Creare una nuova narrativa attorno ai processi di transizione, accompagnata però da risultati tangibili e osservabili dai cittadini.
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