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La politica industriale necessita di risorse nazionali e comunitarie

Ogni qual volta in Europa si affronta il tema di una riforma della governance, almeno di quella economica, ci si dimentica che prima di decidere “come” stare insieme (questo è il tema della governance) si dovrebbe condividere il “perché” si vuole stare insieme

di Giovanni Tria

Imagoeconomica

7' di lettura

Ogni qual volta in Europa si affronta il tema di una riforma della governance, almeno di quella economica, ci si dimentica che prima di decidere “come” stare insieme (questo è il tema della governance) si dovrebbe condividere il “perché” si vuole stare insieme. È una vecchia storia che si ripresenta oggi di fronte al doppio passaggio della riforma del Patto di stabilità e crescita, cioè delle regole fiscali europee, e della definizione di una politica industriale europea che non sia solo quella di dare una velleitaria risposta al piano americano di sostegno pubblico alla propria industria. Ci hanno sempre raccontato che per contare e competere nel mondo i singoli Stati sono troppo piccoli e, quindi, la dimensione europea sia necessaria a questo fine. Un’altra motivazione, non certo secondaria, era quella di evitare che continuasse la tradizione millenaria di guerre tra i popoli europei.

Torniamo alla prima motivazione, senza però dimenticare la seconda, per rispondere al primo “perché”, quello della competizione globale. È un dato di fatto che le regole europee sulla concorrenza siano state definite principalmente per regolare la competizione interna al mercato unico europeo. Sono regole fondate sulla sfiducia reciproca tra gli Stati membri e quindi sulla necessità di evitare concorrenze sleali all’interno dell’Europa, ma è senz’altro un fine legittimo. Però è anche un dato di fatto, e non necessariamente conseguente, che se il fine prevalente è quello di evitare che all’interno del mercato unico un Paese danneggi l’altro, sia poi diventato secondario il fine più generale della costruzione di una industria “europea”, competitiva nel mondo. La questione è esplosa nel momento in cui gli Stati Uniti, essendosi resi conto che non funziona la risposta puramente di mercato alla carenza di offerta globale di produzioni necessarie alla transizione tecnologica verde, hanno deciso di varare un piano massiccio di aiuti di Stato, in vario modo articolati, all’industria Usa. In realtà il tema sarebbe dovuto già essere affrontato in Europa indipendentemente dall’attivismo americano venato da protezionismo. Ma è la competizione interna all’Europa, e la sfiducia tra i Paesi, che ha impedito fino a oggi di costruire una credibile strategia europea e ciò si riflette nel dibattito attuale sulla necessità di ampliare l’uso degli aiuti di Stato per attrarre e affiancare investimenti privati nello sviluppo di industrie europee strategiche. Alcuni Stati membri non vogliono programmi europei con fondi comunitari aggiuntivi per finanziare questi aiuti in modo equilibrato nei vari Paesi, ma vogliono parzialmente liberalizzare gli aiuti di Stato nazionali, cioè finanziati con bilanci nazionali. I fautori della soluzione “nazionale” dicono però al tempo stesso, ricordando una famosa canzone di Enzo Jannacci, «no, tu no». In altri termini, io posso aiutare le mie industrie, ma chi ha meno spazio fiscale di me deve privilegiare il rigore di bilancio, senza la flessibilità necessaria ad aiutare la propria trasformazione industriale o a partecipare a quella europea. Abbiamo già sostenuto in questa rubrica che sarebbe bene seguire entrambe le strade, essendo logicamente complementari. Se è sbagliato ritenere che i Paesi che hanno più risorse non debbano essere più liberi di impiegarle, anche per fare da traino al resto dell’Europa, è anche sbagliato impedire ai Paesi con meno spazio fiscale di far uso flessibile sia delle varie risorse comunitarie già a disposizione, sia del proprio bilancio, allo stesso fine e con vantaggio complessivo per l’economia europea.

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Ma qui emerge l’altra debolezza dell’Europa, anch’essa figlia della sfiducia reciproca tra gli Stati membri. L’Unione europea non ha avuto fino a oggi una politica fiscale e di bilancio comuni, ma solo regole di sorveglianza sulle politiche di bilancio nazionali. Questa è la zoppìa della governance economica europea e questo è il nodo che dovrebbe essere affrontato con la riforma del Patto di stabilità e crescita. Il passo minimo in avanti che si deve fare è quello di capire che, se la politica di bilancio europea per ora passa sostanzialmente attraverso gli effetti delle politiche di bilancio nazionali sull’economia europea nel suo complesso, anche la sorveglianza sui bilanci nazionali deve tener conto delle interdipendenze tra le politiche e le economie dei singoli Stati. Da ciò deriva che anche la questione degli aiuti di Stato e della politica industriale europea debba essere affrontata in una logica continentale, attivando sia risorse comunitarie sia consentendo a tutti gli Stati di attivare risorse nazionali pur in un quadro di prudenza fiscale. Questi temi sono stati posti con chiarezza dal governo italiano, ma si deve essere anche consapevoli che nel corso della pandemia il nostro Paese ha utilizzato in misura minima il maggior spazio concesso dalle regole europee agli aiuti di Stato (grazie al temporary framework), in confronto alla Francia e alla Germania, non tanto per mancanza di risorse quanto perché le strutture dei ministeri competenti adottano una interpretazione delle regole europee molto più restrittiva di quella degli altri Paesi e sono molto meno propense a negoziare con la Commissione i possibili interventi. Si tratta di un caveat importante, perché sarebbe inutile battersi in Europa per avere maggiore spazio di azione se poi non ci sono strutture operative nel nostro Paese che lo sappiano, o lo vogliano, usare.

Il parlamento sembra aver raggiunto un accordo di massima sulla legge delega per la riforma fiscale. Il punto più condiviso è quello che riguarda la necessità di ridurre la pressione fiscale diretta, cioè l’Irpef, sulle classi di reddito medio basse. Ma per ciò che riguarda la dimensione possibile di questa riduzione, un tema che sembra dimenticato nel dibattito è quello del possibile spostamento del prelievo dalle imposte dirette (Irpef) alle imposte indirette (Iva), cioè dai redditi dei fattori produttivi, che nel caso dell’Irpef sono sostanzialmente i redditi da lavoro, oltre che da pensioni, alla tassazione dei consumi. Il ministro Tremonti definiva questo spostamento “dalle persone alle cose”. Una dimenticanza che è molto strana perché, in un periodo di europeismo condiviso, si elude proprio una raccomandazione tradizionale della Commissione europea. Una raccomandazione il cui fondamento sta nel fatto che questo spostamento del prelievo favorisce la crescita a parità di pressione fiscale complessiva. La ragione è che si ridurrebbe il cuneo fiscale, che entra nei costi di produzione, determinando un aumento delle remunerazioni al netto delle tasse. Ma questo spostamento di prelievo sarebbe anche utile alla crescita perché determina una “svalutazione fiscale”, poiché l’Iva non grava sulle esportazioni, mentre colpisce i consumi di beni e servizi importati in egual misura rispetto a quelli prodotti sul territorio nazionale. In tal modo si recupera competitività internazionale. Non è un caso, inoltre, che nell’economia globalizzata, per tassare localmente i profitti delle multinazionali, si stia valutando di prendere come riferimento le loro vendite nei vari Paesi. E anche nelle discussioni sulla tassazione delle ricchezze si mette in rilievo che quelle personali, in vario modo legalmente o non legalmente occultate, si riflettono nel livello di vita dei beneficiari al momento del consumo.

Il fatto rilevante è che seguire questa strada permetterebbe oggi una riduzione del prelievo Irpef sui redditi medio-bassi doppio o anche triplo rispetto a quello di cui si discute e ciò faciliterebbe la definizione del “metodo” con il quale ridurre in misura percepibile l’imposizione diretta sulle classi di reddito medio e medio-basso. C’è da decidere, infatti, “come” operare la correzione e le sue dimensioni. In altri termini, vi è da una parte il problema di come finanziare la riduzione del prelievo Irpef e dall’altra il problema di definire la struttura del prelievo, il grado di progressività e come applicarla. Su questo secondo punto, il dibattito politico si è concentrato su due possibili alternative ben descritte, come hanno ricordato Paladini e Visco sul Sole del 30 giugno, nell’ottimo rapporto presentato in una audizione al Parlamento dal direttore generale del Dipartimento delle Finanze del Mef, la professoressa Fabrizia La Pecorella, e ben studiate nello stesso Dipartimento fin dal 2019. La prima alternativa consiste essenzialmente nella riduzione, da 5 a 3, del numero di aliquote applicate per scaglioni di reddito. La seconda ipotesi è quella di passare al cosiddetto modello tedesco, cioè disegnare una curva continua di aliquote marginali, che coinciderebbero sostanzialmente con quelle medie effettive, da applicare per ogni singolo livello di reddito. Avendo già preso posizione su questa rubrica a favore di questa seconda alternativa (15 agosto 2020), ne richiamo i motivi fondamentali. Le maggiori attrattive del modello tedesco risiedono nella sua trasparenza e nella sua flessibilità. Trasparenza perché ogni percettore di reddito saprebbe, senza fare calcoli personali, quale percentuale del suo reddito deve versare allo Stato, che è ben diversa da quella che si legge nella sua aliquota marginale. L’argomento di chi parla di complicazione “algoritmica” o matematica per la determinazione della curva delle aliquote è fuorviante perché il compito del calcolo è dell’amministrazione fiscale, e non è complicato perché basta decidere quale debba essere, mentre al contribuente verrebbe solo comunicata la percentuale effettiva del suo reddito che deve pagare. Quanto alla flessibilità, va considerata da un duplice punto di vista. Permette di decidere in modo mirato i livelli di reddito da beneficiare oggi con una riduzione di prelievo, disegnando con precisione la curva della progressività, ma permette anche con facilità di appiattire progressivamente, in futuro, la curva delle aliquote fino al livello desiderato di reddito. In altri termini, sarebbe facile spostare verso livelli superiori di reddito la progressività del prelievo dettato dalla Costituzione, man mano che l’equilibrio della finanza pubblica lo permetterà e secondo le scelte politiche discrezionali che sono alla base della democrazia. In ogni caso, deciso il metodo, l’importante è ridurre progressivamente in misura significativa la pressione fiscale sui redditi medi e medio-bassi. Lo si dice da decenni, almeno da quando l’inflazione alta fece lievitare i redditi nominali, ma non quelli reali, con la conseguenza che le aliquote concepite per redditi medio-alti finirono per colpire anche i medio-bassi. Il dibattito sul fiscal drag, come venne chiamato il fenomeno, fu intenso ma senza effetti rilevanti. La fame di gettito fiscale a fronte di spesa pubblica crescente, purtroppo non per investimenti, ha fino a oggi sempre collocato questa esigenza di correzione del prelievo nella cartella dei buoni propositi.

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