La recherche secondo Gucci apre Milano moda donna
di Angelo Flaccavento
3' di lettura
«Il passato è afflosciato, il presente è un mercato» latravano con vitriolo punk i CCCP oltre trent’anni fa. Oggi anche il passato è un mercato. Lo è certamente nella moda, dove il saccheggio del tempo che fu è principio della dinamica. Lo è all’ennesima potenza per Gucci: sul mega-collage di epoche e riferimenti il direttore creativo Alessandro Michele ha costruito un sistema estetico che è una concezione della vita fluida e un business plan inesorabile che celebra il potere dirompente dell’individualità sregolata.
In uno show Gucci ogni elemento, anche minuzioso e marginale, ha un peso massimo nella lettura complessiva di quella che a tutti gli effetti va considerata una pièce teatrale, non una semplice sfilata di moda, e lo spettacolo che mercoledì 20 ha aperto la settimana milanese della moda è stato annunciato da un invito carico di simbologie: una maschera da rappresentazione drammatica, nebulosamente sospesa tra Grecia classica e Roma antica, recapitata agli ospiti in una cassa di legno, come un reperto archeologico trafugato e reso oggetto di un losco contrabbando spaziotemporale. Il passato è un mercato, si diceva. È però sulla maschera che va concentrata l’attenzione: un oggetto misterioso e potente che mentre nasconde l’identità la libera perché, come vuole un detto antico - shakespeariano o kabuki poco importa - «un uomo che indossa una maschera è un uomo che dice la verità».
Di maschere sulla passerella - vertiginosa, di specchio, illuminata da flashate stroboscopiche che danno le vertigini - ce ne sono molte, ma di ben altra specie: sibilline e lustre, ricoperte di borchie lunghe e acuminate. Fin qui, è il teatro guccesco cui siamo abituati. Backstage Michele parla di: «Maschera che mostra e nasconde» e di una ricerca sull’identità che è la sua ossessione stilistica fin dagli esordi. Però aggiunge: «La maschera mi è servita ad intensificare i contorni dei vestiti». Ed è qui che finalmente avviene lo scarto, e che il codice si rompe per progredire. Le maschere sono infatti puro espediente scenico che accentua il coté morboso e sinistro di beautiful freak - uomini e donne: qui la fluidità di genere è utopia realizzata - vestiti di abiti nei quali a contare sono la linea e il volume - sempre sghembo, massimizzato, ondeggiante - invece che il decoro.
Ecco la novità: Alessandro Michele fa i vestiti, e li fa anche molto bene, abbandonandosi a quella urgenza storico-ricapitolativa che è la sua più autentica sigla autoriale. Da Courreges e Cardin a Coco Chanel, passando per Krizia, senza trascurare zaffate di Comme des Garçons, Martin Margiela e Christian Lacroix, c’è davvero di tutto, reinterpretato con totale non rispetto per passato e presente, avant-garde e mainstream, maschio e femmina, e con una verve mercuriale da colorista. Il risultato è potente, intossicante. Michele è un massimalista, ma c’è una brutalità barocca nel suo operare che è fresca, e che fa sembrar nuovo anche l’omaggio.
Ci sono dei gran vestiti - sexy e pericolosi, ispirati al thriller di Brian De Palma “Vestito per Uccidere” - da N°21, dove Alessandro Dell’Acqua si riconcilia definitivamente con il lato più carnale e sfrontato della propria personalità stilistica. Basta poco a sregolare gli equilibri: zip posteriori lasciate aperte che trasformano cappotti cammello e abiti da signora in trappole seduttive, con il frisson fetish del latex che balugina dalle sottovesti.
C’è un gran luccicare d’argento, e molti anni Ottanta, tra volant, asimmetrie e grandi spalle, da Alberta Ferretti, dove non si capisce più bene che fine abbia fatto la poesia di un tempo e i confini tra la linea ammiraglia e Philosophy sono diventati indistinguibili. Un po’ di focus aiuterebbe.
È in ottima forma Arthur Arbesser, che per una volta rinuncia ai lambiccamenti e alle asperità, facendo centro con una collezione radical chic di cappottini di casentino e abiti a stampe geometriche perfetti per le amiche artiste e per le signore di piazza Sant’Ambrogio.
Da Jil Sander, in fine, la linea essenziale diventa vibrante in una nuova ricerca di femminilità. I volumi sono ampi: il corpo lo sfiorano appena. Eppure se ne percepisce l’energia e sensualità, la delicatezza e la forza. Un equilibrio sottile, che i direttori creativi Luke e Lucie Meier maneggiano con gusto, anima ed eleganza.
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