La responsabilità dell'incendio
Forse non ci aspetta un diluvio di romanzi sulla pandemia ma il virus contribuirà a far emergere una tendenza sotterranea, che vuole sia il lettore, alla fine, a fare un po' d'ordine nella storia
di Federico Bona
5' di lettura
Nel giugno del 2015, l'allora – e oggi di nuovo – ministro per i Beni culturali Dario Franceschini se ne uscì con l'idea di una Biblioteca nazionale degli inediti. Non se ne fece nulla e lo sventurato venne pure schernito pubblicamente, ma io capisco nel profondo il perché di quella fascinazione. E la condivido. Molto del mio tempo lo trascorro in compagnia di manoscritti: con l'aiuto di un discreto numero di collaboratori, valuto un totale di 350-400 testi l'anno che autori italiani, o aspiranti tali, sottopongono per la pubblicazione a un editore medio-grande del nostro panorama.
Si tratta di romanzi ancora freschi di salvataggio Word, la maggior parte dei quali non arriverà mai a essere stampata, mentre gli altri raggiungeranno le librerie in ordine sparso, magari presso un altro editore, in un periodo che varia da uno a due anni dopo. Insomma, è un osservatorio unico, oltre che privilegiato e irriproducibile a posteriori, di ciò che colpisce l'immaginario di chi cerca di rendere a parole la realtà in cui viviamo. La pandemia ha imposto una brusca frenata al numero di manoscritti in arrivo, che determinerà forse, a mo' di terzo principio della dinamica, una riaccelerazione nei prossimi mesi, ma non è detto.
Molti scrittori hanno confessato in varie sedi – uno, Gianni Biondillo, proprio su queste pagine – che il periodo di clausura forzata non si è rivelato affatto favorevole alla creatività: troppe preoccupazioni concrete, e del tutto inedite, per lasciare spazio alle fantasticazioni. È prevedibile, e persino umano, che alla ripresa molti testi saranno ispirati proprio alla pandemia, e che tanti eleggeranno come forma la distopia – l'utopia al contrario, pessimista e angosciante. Ma si tratterà di un'ondata che difficilmente avrà forza sufficiente per raggiungere le librerie: chi di noi, dopo questo periodo – che non sappiamo ancora se eccezionale o drammaticamente ripetibile – avrà voglia di riviverlo sia pure fantasticamente?
A portare a termine l'intero percorso che dal manoscritto conduce fino alle mani dei lettori saranno invece più probabilmente due filoni di testi che già in epoca pre-Covid-19 spiccavano, sia per la forza dei numeri sia per la loro capacità di imprimersi nella memoria. Il primo ha a che fare con un genere codificato, il romanzo storico, e con un'ambientazione ben precisa: il ventennio fascista. Il secondo segue una traccia più effimera, perché attraversa più generi e si basa unicamente sull'architettura del testo: le narrazioni costruite accostando più frammenti.
Gli autori non scrivono per caso ciò che scrivono. Come tutti gli artisti, intercettano e rielaborano quesiti, inquietudini e pulsioni del proprio tempo. Così, i romanzi ambientati durante il fascismo nascono in risposta al risveglio politico, in tutto il mondo, degli estremismi, e benché non siano una novità – tutt'altro – potrebbero ulteriormente nutrirsi dei temi che il virus ha riportato al centro del dibattito, primo tra tutti il complesso rapporto tra libertà individuali e bene comune. Allo stesso modo, la scelta di costruire una narrazione per frammenti sembra manifestare la rinuncia, da parte dell'autore, a dare un senso al mondo, fosse anche soltanto il microcosmo controllabile costituito dal proprio romanzo. È come se lo scrittore derogasse a uno dei compiti di cui storicamente si è fatto carico – ricreare un ordine, benché fittizio – e si limitasse a presentare una serie di eventi rilevanti, un fiorire di scintille, delegando al lettore la costruzione del significato complessivo, e quindi la responsabilità dell'incendio.
Non parlo di semplici strategie di montaggio, condivise da tanto cinema, dove capitoli che si occupano del presente dei personaggi si alternano ad altri che ci ragguagliano sul loro passato, o dove si dà conto delle medesime vicende raccontandole di volta in volta attraverso gli occhi di ciascuno dei protagonisti. Questi sono perlopiù collaudati stratagemmi per rendere più accattivante la narrazione o per creare suspense. Nei manoscritti a cui mi riferisco io, l'autore si limita ad accostare tra loro un numero variabile di testi – da due o tre grandi blocchi fino a centinaia di minuscole schegge – senza preoccuparsi di dar loro una qualsiasi continuità, neanche ricostruibile una volta giunti al termine del romanzo. Lasciando anzi, alla fine, molte parti non dette.
È qui lo scarto, è qui che si chiede al lettore non solo di completare il lavoro, ma di compierne la parte più impegnativa e più importante. L'esperienza che abbiamo vissuto in questi mesi potrebbe amplificare il ricorso a questa pratica e in definitiva portare a compimento il processo che, dal tradizionale narratore esterno onnisciente, proiezione di un autore che credeva che il mondo un ordine potesse averlo, ci ha condotti nel giro di un secolo e mezzo alla cosiddetta autofiction, dove l'ipertrofia dell'io che parla è l'estremo, fragilissimo collante di una narrazione che altrimenti non si terrebbe in piedi.
Proprio così: il divenire delle forme letterarie ha assecondato il crollo progressivo della fiducia in una qualsiasi spiegazione dell'universo, fosse essa di ordine trascendentale o fondata sul positivismo scientifico. La polverizzazione attuale dei saperi e la frantumazione delle certezze sono rispecchiate dalla frammentarietà dei racconti.
Ricordate quei Promessi Sposi che forzosamente cercavano di infilarci in testa durante il liceo? Esatto, lì il compito di mettere nella giusta prospettiva gli eventi era affidato alla divina provvidenza. I pesi massimi del primo Novecento, da Thomas Mann a Marcel Proust, hanno poi laicamente trasferito questo fardello sull'individuo, prima che le due guerre mondiali incrinassero definitivamente la fiducia nell'umanità. La messa in discussione della realtà che ne è seguita ha prodotto un relativismo che ha dato forza alle narrazioni in prima persona, disperate come in Albert Camus e Louis-Ferdinand Céline, insensate come in Samuel Beckett e in certe avanguardie, vitalistiche come in Ernest Hemingway, e più avanti ancora fatalistiche, come in certa narrativa sudamericana, o edonistiche come nel postmoderno. Ma la scelta di raccontare una storia appoggiandosi alla prima persona, a un personaggio interno ai fatti narrati, è sempre un atto di fede nell'individuo, nella sua capacità di produrre un'interpretazione, per quanto parzialissima, della realtà.
Il punto estremo di questo percorso è l'autofiction, dove l'autore, ormai rassegnato all'incapacità di capire l'altro da sé, prova almeno a spiegare se stesso. In realtà, si tratta più spesso di una resa disperata, che affida alla continuità garantita dal proprio esistere – e già questo fa sorridere – l'unitarietà, e quindi il senso, degli eventi narrati.
Oggi, in un'epoca in cui l'esperienza del trascendente ha cambiato oggetto, trasferendosi dal contatto con un dio onnipotente a un esercizio individuale, e giunti al punto in cui la scienza mette in dubbio l'esistenza del tempo – ovvero il filo stesso di ogni possibile narrazione – non ci restano che i frammenti. Sono davvero convinto che questo sia l'approdo più probabile – o più fruttuoso – della narrativa futura? Be', gli elementi li avete: non sarò certo io l'unico rimasto a prendersi il peso delle risposte, la responsabilità dell'incendio.
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