Mind The Econony

La retorica della meritocrazia e la contrarietà agli ideali

Attenzione al rischio simmetria delle valutazioni, cioè alla possibilità che a una ideale e legittima ricompensa al merito e al successo, che la retorica meritocratica auspica, sia associata quasi automaticamente una punizione per l'insuccesso

di Vittorio Pelligra

(AdobeStock)

9' di lettura

Di meritocrazia, si parlava, o meglio, di “retorica della meritocrazia”, del “mito”, della “trappola”. E se ne parlava, nel “Mind the Economy” della settimana scorsa, nell'ambito di una riflessione avviata mesi fa, intorno al ruolo del lavoro, al suo significato, ai suoi modi e mezzi che cambiano, alla sua possibilità sempre più critica di diventare attività generatrice di senso per le nostre vite. E in questo discorso, naturalmente, la questione della meritocrazia diventa, se non centrale, di sicuro non marginale, perché non marginale è riflettere sui meccanismi che una società si dà per cercare di favorire la migliore corrispondenza possibile tra aspirazioni, motivazioni, talenti e vocazioni dei suoi membri, da una parte e occupazioni, mansioni e lavori a loro riservati, dall'altra.

Ma poi la riflessione si allarga, perché il tema della “retorica della meritocrazia” è un tema caldo – lo dimostrano, tra gli altri, i recenti lavori del filosofo Michael Sandel e del giurista Daniel Markovits, ma prima di loro se ne sono occupati in maniera critica, tra gli altri, anche Albert Hirschman, Amartya Sen e Robert Frank – è un tema dalle molteplici implicazioni.

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Quella su cui mi preme concentrarmi oggi ha a che fare con il rischio di simmetria delle valutazioni, per così dire, cioè con la possibilità che ad una ideale e legittima ricompensa al merito e al successo, che la retorica meritocratica auspica, sia associata, quasi automaticamente, una punizione per l'insuccesso. Che il premio per chi ce la fa si associ invariabilmente ad una punizione per chi, invece, non ce la fa, una colpevolizzazione accompagnata da uno sguardo di accondiscendente riprovazione. Questa simmetria è insita nel concetto stesso di merito e di ricompensa al merito.

Sull'architrave del portone d'ingresso che varco ogni giorno per andare al lavoro all'Università campeggia l'iscrizione ulpianea “unicuique suum tribuere”, quel “a ciascuno il suo”, formula retributiva centrale del diritto romano che, però, faceva bella mostra di sé anche all'ingresso del campo di concentramento di Buchenwald, “jedem das Seine”, a ciascuno il suo. A ciascuno ciò che si merita. Una simmetria dinamicamente asimmetrica nella quale ora prevale un lato ora l'altro. Oggi quale versante prevale?

Leggiamo sempre più spesso di casi che sembrano indicatori di un crescente disprezzo verso i “visibilmente crudeli”, di una cultura della colpevolizzazione dell'insuccesso, punte di un iceberg che sotto la superficie dell'acqua sembra assumere dimensioni insospettabili. Leggiamo del presidente Trump che annulla la commemorazione ai caduti americani sepolti nel cimitero di Aisne-Marne, vicino Parigi, perché non capisce il senso di andare in un posto pieno di sfigati (“suckers”) e perdenti (“losers”). Del resto, riferendosi a John McCain, che passò più di cinque anni in un campo di detenzione in Vietnam, Trump disse che non era certo un eroe di guerra e che lui preferiva quelli che non si erano fatti catturare. Ma anche dalle nostre parti tornano in mente le frasi dell'allora ministro dell'Istruzione, Marco Bussetti, che durante una visita in Campania, quando l'intervistatore gli chiese se sarebbero arrivati nuovi investimenti per ridurre il gap tra le scuole del Nord e quelle del Sud, rispose che non servivano più fondi, ma “lavoro, sacrificio, impegno da parte del Sud. Vi dovete impegnare forte”.

Ma leggiamo anche notizie sparse di qualche amministratore zelante che, invece di adoperarsi per risolvere i problemi di chi fatica a tenere il passo, ne sottolinea l'inadeguatezza e la marginalità. Un assessore ai servizi sociali che, qualche giorno fa, toglie la coperta ad un senzatetto che dormiva sotto un porticato e la butta in un prato, oppure quel vicesindaco di una importante città che raccoglie i pochi stracci di un altro senzatetto, e li butta “con soddisfazione” in un cassonetto. O quell'altro assessore alla sicurezza che si lamenta del fatto che i senzatetto, dopo che la polizia municipale li fa sgomberare, si accampano nuovamente sotto i portici “perché i volontari, continuano a portargli cibo e coperte. Non possono vivere così, bisogna pensare al decoro urbano”.

Il semplice fatto che questi rappresentati del popolo non si siano dimessi dopo simili dichiarazioni e simili gesti, significa che questa cultura strisciante è più tollerata e diffusa di quanto non appaia a prima vista. Che la retorica del merito stia contribuendo alla instaurazione di una forma di neo-aristocrazia lo dimostra anche questo disprezzo per i “visibilmente crudeli”, per usare il titolo di un bel libro di Giacomo Todeschini, dei poveri, dei sospetti, degli “scarti”, direbbe Papa Francesco, degli infami, gli immeritevoli, appunto, di “fides”, fiducia, secondo i canoni della “civitas christiana” medievale. Ma oggi abbiamo i dati. I dati, oltre agli episodi e all'evidenza impressionistica.

Solo qualche giorno fa il Pew Researche Center ha pubblicato un interessante rapporto che evidenzia come, secondo la maggioranza dei cittadini (61%, 78% tra i democratici e 41 tra i repubblicani), negli USA ci sarebbe troppa disuguaglianza, ma, contemporaneamente, meno della metà (il 44%) ritiene che la disuguaglianza rappresenti un problema. La maggioranza dei democratici (60%) ritiene, inoltre, che la principale causa della disuguaglianza sia da rinvenirsi nelle scelte di vita che le persone compiono e non sia legata a fattori fuori dal loro controllo. Significativamente, la percentuale di coloro che ritengono accettabile un certo livello di disuguaglianza cresce al crescere del reddito.

La ricerca, poi, più nello specifico, analizza il livello di supporto dei cittadini americani, repubblicani e democratici, rispetto a diverse politiche pubbliche - istruzione, sanità, pensioni, accesso a internet, etc.) - quelle politiche che dovrebbero favorire l'uguaglianza delle opportunità. I dati mostrano, innanzitutto, come ci si poteva attendere, un livello di supporto maggiore per i democratici e minore per i repubblicani, ma, soprattutto, evidenziano come, sia per i primi, ma molto più per i secondi, il livello di appoggio a tali politiche si riduca significativamente con l'aumentare del reddito.

Più ce l'ho fatta, meno credo che lo Stato debba aiutare chi non ce la fa, sembra essere la mentalità più diffusa. In questo modo la retorica meritocratica si trasforma velocemente in una forma di autolegittimazione delle élites, un grimaldello per scardinare il ruolo del merito come strumento di emancipazione e trasformarlo in meccanismo di trasmissione di privilegi, di amplificazione delle diseguaglianze e di colpevolizzazione di chi rimane indietro. Non è un bel destino per un concetto alto e nobile.

Da una parte quindi arriva la critica egualitarista, un po' sull'uguaglianza delle opportunità, un po' sull'uguaglianza degli esiti, e questo non sorprende. La cosa che sorprende di più, invece, è la pervicacia con la quale questa retorica ideologica viene ancora difesa da chi si dice liberista, da chi, cioè, dovrebbe vedere la meritocrazia come nemica di quella libertà e di quell'ordine di mercato che stanno al centro di una società di impianto liberista. Sono, infatti, pochissime, oggi, le voci che, da quel campo, si levano contro la retorica meritocratica.

Una illuminante eccezione è rappresentata dal denso pamphlet di Pierluigi Barrotta “I demeriti del merito. Una critica liberale alla meritocrazia”, edito da Rubbettino con una prefazione di Raimondo Cubeddu; due nomi, editore e prefatore, che dovrebbero essere più di una garanzia. Questa lettura sorprenderebbe molti dei liberisti meritocratici nostrani, di coloro, e sono molti, che pensano, per esempio, che criticare l'ideologia meritocratica equivalga automaticamente a sposare una opposta ideologia egualitarista o, perfino, l'onagrocrazia di crociana memoria.

Eppure, l'argomento in questione è semplice e lineare e procede su tre linee: la prima, il mercato non premia il merito; merito e valore stanno su piani differenti, il primo piano è etico e individuale, il secondo, invece, economico e sociale. Non c'è nessun merito, per esempio, nel possedere abilità e competenze che sono fortemente richieste o decisamente scarse, in un dato luogo e in un dato momento, così come non c'è nessun demerito, se si coltivano talenti che sono, invece, poco richiesti e valutati. C'è una grandissima competenza, un grande sforzo creativo e di abilità e, quindi, un grande merito, nel lavorare il bisso, con il quale, si dice, venissero tessute le vesti dei faraoni, ma il valore che il mercato riconosce a tale merito è del tutto marginale. Il punto l'aveva già chiarito, tempo fa, von Hayek quando scriveva che “probabilmente siamo tutti troppo pronti ad attribuire un merito personale laddove, di fatto, esiste solo un valore superiore. La popolarità e la stima non dipendono dal merito più di quanto ne dipenda il successo finanziario. Di fatto è perché siamo così abituati a presumere un merito spesso inesistente dovunque troviamo un valore, che esitiamo quando, in taluni casi, la contraddizione è troppo grande per poterla ignorare” (“La società Libera”, Vallecchi, 1969).

La seconda linea di argomentazione sviluppa l'idea secondo cui quello di “merito” è un concetto del tutto imperscrutabile. Intanto è necessaria una chiarificazione terminologica per distinguere talenti e abilità. Le prime sono predisposizioni naturali, le seconde rappresentano quelle capacità che, a partire dai talenti, si sono sviluppate attraverso l'impegno. Il merito risiede, dunque, nell'aver sviluppato, attraverso l'impegno, dei talenti naturali. Come confrontarlo però? Come poter affermare “A è più meritevole di B”? Sulla base dei risultati? Bisognerebbe poter conoscere talenti e sforzo, nella loro giusta composizione, perché premiare il talento che nessuno si è meritato sarebbe altamente ingiusto. E poi si potrebbero confrontare solo abilità relative allo stesso tipo di attività. Quanto A è più o meno bravo di B a fare X.

Sarebbe impossibile confrontare soggetti differenti impegnati in attività differenti o in momenti differenti, o in ogni circostanza nella quale anche solo una variabile di contorno muti. Cercare di applicare il criterio del merito in questo genere di valutazioni aprirebbe la strada a giudizi del tutto arbitrari e fondati su una visione soggettiva della realtà e quindi, in fondo, ideologica perché infalsificabile. Conclude sul punto Barrotta: “Laddove il merito è un concetto legittimo esso è irrilevante […] Laddove, invece, seguendo la meritocrazia, sarebbe rilevante, si rivela fondato su una confusione concettuale” (p. 44). “Chi dice merito, senza specificare che cosa intende e come intende raggiungerlo, nella migliore della ipotesi non sta dicendo nulla; nella peggiore, nasconde una cattiva coscienza”, ha recentemente scritto il filosofo Pasquale Terracciano, in linea con l'argomentazione dell'imperscrutabilità del merito.

Il terzo aspetto che caratterizza la critica liberale alla meritocrazia, e che emerge con forza anche tra le preoccupazioni evidenziate da Michael Sandel, è relativo all'instabilità sociale che un ordine fondato sulla ideologia meritocratica potrebbe generare. Se il successo, il prestigio e il premio economico venissero legittimamente utilizzati per valutare il merito individuale, coloro che si dovessero trovare in posizioni di prestigio, successo e privilegio economico avrebbero buon gioco a considerare tutti gli altri come immeritevoli, passando, quindi, da un giudizio fattuale ad uno di valore. “Il termine ‘inferiore' – nota ancora Barrotta – non avrebbe una semplice connotazione descrittiva, basata, ad esempio, sulle differenze di reddito o di proprietà, ma acquisirebbe il significato di un giudizio di valore. Ciò farebbe nascere un giustificato risentimento da parte delle persone che appartengono alle classi meno abbienti […] L'unico modo per far accettare loro [questa situazione] consisterebbe in una buona dose di propaganda” (p. 53).

Esiste una “armonia prestabilita” tra merito ed esiti di mercato ed ogni alternativa non farebbe che peggiorare la situazione. “Il disprezzo per i meno istruiti è l'ultimo accettabile pregiudizio”, così recita il titolo di un recente editoriale di Michael Sandel sul New York Times, “e sta distruggendo la vita pubblica americana”.

Un altro sintomo della hybris meritocratica, di quella simmetria delle valutazioni che porta, automaticamente, dal premio ai meritevoli alla punizione dei presunti immeritevoli. In questo clima di autolegittimazione del vincitore non è difficile comprendere il sospetto che generano, tra le altre, le idee del necessario rispetto e della doverosa protezione delle minoranze. Chi si attende facili ricette da un articolo di giornale rimarrà certamente deluso dalla lettura di queste righe. Io credo che una buona diagnosi e l'identificazione dell'agente patogeno siano, già, condizioni necessarie, anche se non sufficienti, per l'individuazione di una cura che porti alla guarigione l'organismo. L'operazione qui è resa ancora più difficile perché, come in molte patologie psichiatriche, i sintomi non sono riconosciuti ed accettati neanche dal malato.

L'apparente ragionevolezza del concetto di merito induce un sorprendente atteggiamento di acriticità che rende la discussione sul punto viziata da pregiudizi aprioristici e da preclusioni ideologiche. Occorrerebbe un cambiamento culturale e politico. Su questo versante sarebbe necessario che liberisti e egualitaristi riconoscessero che la retorica della meritocrazia è contraria a entrambi gli ideali e alle forme di vita, all'organizzazione economica e agli assetti sociali che essi ritengono necessari per una società giusta.

Ma in questo senso la sfida più grande e difficile risiede nel campo dei liberisti, che per troppo tempo hanno sottostimato quanto la retorica della democrazia sia nemica della libertà, del pluralismo, del mercato e delle virtù civili. Può essere di incoraggiamento, forse, il monito di David Hume, non certo un giacobino, che nelle sue “Ricerche sull'intelletto umano”, a proposito di valutazione del merito, conclude così: “Tanto grande è l'incertezza in cui [l'umanità] si trova nel giudicare il merito […] che non ne risulterebbe alcuna determinata regola di condotta e se ne avrebbe per conseguenza immediata la totale dissoluzione della società”. Un esito che, forse, varrebbe la pena di provare ad evitare.

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