La ricerca italiana chiede al Governo di cambiare rotta: «Pronti a fare 2mila test al giorno»
Il professore Pier Giuseppe Pelicci, co-direttore scientifico dell’Istituto europeo di Oncologia di Milano, uno dei promotori dell’appello inviato il 24 marzo al Governo, chiede al Governo di cambiare strategia
di Michela Finizio
3' di lettura
«Se non cambiamo rotta nella strategia diagnostica entro le prossime 24 ore non è più tollerabile». A dirlo è il professor Pier Giuseppe Pelicci, co-direttore scientifico dell’Istituto europeo di Oncologia di Milano, uno dei promotori dell’appello inviato il 24 marzo dai massimi rappresentanti della comunità scientifica italiana al Governo e alle Regioni sulle misure di sorveglianza attiva da adottare per contenere il contagio da Covid-19.
Perché, professore, si continuano a fare i tamponi solo ai sintomatici? Mancano le risorse per farne di più?
Finora c’è stato un problema di tecnologia e infrastrutture a disposizione. I test attualmente utilizzati, tramite i tamponi in commercio dall’inizio dell’epidemia, sono “a bassa processabilità”, cioè richiedono tempistiche e procedure più lunghe. Un laboratorio classico di analisi ha la possibiltà di farne decine, massimo un centinaio al giorno. Negli ultimi dieci giorni, invece, sono arrivati sul mercato prodotti più efficaci, kit immediatamente disponibili e già validati ad altissima processabilità. Siamo pronti a utlizzarli e, con queste tecnologie, i nostri laboratori potrebbero processarne ciascuno anche mille o duemila al giorno, a seconda della struttura.
Le strutture dei laboratori sono attrezzati per far fronte a queste esigenze?
I laboratori tradizionali, probabilmente, non possono farcela da soli. Finora, dall’inizio dell’epidemia, in Italia sono stati effettuati poco più di 250mila tamponi. Ed ecco perché abbiamo proposto di aprire i laboratori di ricerca, mettendo a disposizione le nostre strutture, già capaci di lavorare su sistemi molto più complessi. L’appello è stato sottoscritto da 36 Istituti di ricerca (Ircss) e altri 25 istituti di ricerca biomedicale presenti sul territorio italiano. Ciascuno è pronto a mettere la propria istituzione al servizio dell’emergenza. Si parla di circa 5/6mila ricercatori pronti a lavorare. Ci mettiamo a disposizione di un coordinamento nazionale, ovviamente, perché nessuno deve andare avanti per conto proprio. Ma solo così sarebbe possibile cambiare marcia e ampliare la scala di analisi.
Cosa determina l’urgenza di questo cambio di rotta?
Dobbiamo introdure subito, da domani, queste tecnologie che consentono di moltiplicare i test. Non è più il momento di tentennare, non tollererei ulteriori dibattiti sul punto. La strategia utilizzata finora di fare tamponi solo ai sintomatici non è più sufficiente. Serve un cambio di strategia. L’epidemia è nuova per tutti, non ci sono precedenti, ma gli ultimi modelli di analisi parlano chiaro: più della metà dei casi sono asintomatici, questo significa che più della metà dei “contagiatori” non li conosciamo. In questa fase i test vanno estesi subito a tutti i familiari dei positivi e a tutte quelle categorie ad alto rischio infezione. Al personale sanitario, prima di tutto, ma anche a chi lavora nei supermercati o in altri luoghi ancora aperti al pubblico (Poste, mezzi pubblici, taxi, forze di polizia, e così via). Senza contare che poi dobbiamo attrezzarci fin da ora per la fase successiva.
Cioè? Quale sarà la prossima fase?
Nel documento che abbiamo inviato al Governo abbiamo individuato diverse fasi e strategie diagnostiche da adottare. Dobbiamo anche attrezzarci ora per partire tra due o tre mesi, quando il picco sarà passato, con la fase di gestione della coda dell’epidemia, per evitare che ne parta poi un’altra. Se non lo facciamo, richiamo di trovarci ancora impreparati.
Dobbiamo, ad esempio, capire come funziona l’immunità, quanto è solida nel tempo, monitorando longitudinalmente i guariti. Questo programma deve partire subito, così come va pianificata la fase di sorveglianza attiva avviando la produzione su larga scala di kit di validazione basati sulla identificazione di acidi nucleici virali. E con le nostre competenze possiamo farlo.
In queste ore, cosa frena questo cambio di strategia sui test diagnostici, chiesto da più parti?
Ci ricordiamo quando si diceva che le mascherine non servivano a niente? Era evidente a tutti che, scienza o meno, le mascherine rappresentavano in realtà l’unico strumento reale per ridurre la carica infettiva. Ma le mascherine non c’erano e il Governo non avrebbe saputo come metterle a disposizione della collettività. È chiaro che c’è stata una mitigazione delle strategie adottate a causa delle tecnologie a disposizione.
Ma ora sono ottimista. Le tecnologie per fare test ad alta processabilità oggi ci sono. Il Governo ha messo in campo risorse consistenti e il ministero della Salute sta accantonando fondi per l’emergenza.È vero, gli istituti di ricerca non hanno neanche loro grandi risorse, ma i nostri laboratori ci sono, non devono essere costruiti, e mettiamo a disposizione il nostro personale.
Certo, se non partiamo subito sarebbe difficile da comprendere.
Per approfondire:
● L’APPELLO / Coronavirus, 290 scienziati italiani chiedono più test: «Laboratori di ricerca pronti»
● LA MAPPA / Laboratori clinici al collasso e senza risorse. I dati regione per regione
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