Mind the Economy

La ricerca di senso, anche al lavoro, non può essere un lusso per pochi

Ogni lavoro, con pochissime eccezioni, può essere o può diventare un lavoro generatore di senso

di Vittorio Pelligra

(AdobeStock)

7' di lettura

Il 14 marzo 2012, Il New York Times, pubblicò un editoriale con il quale Greg Smith, un alto dirigente del colosso bancario Goldman Sachs, spiegava perché, dopo 12 anni di lavoro per la banca, aveva deciso di lasciare quella più-che-molto-remunerativa posizione per la quale si era impegnato molto duramente fin da quando era studente. “Credo di aver lavorato qui abbastanza a lungo – scrive Smith – da aver compreso quale traiettoria hanno assunto la cultura, le persone, l'identità aziendale. Posso onestamente dire che quest'ambiente è diventato tossico e distruttivo come mai prima. Gli interessi dei clienti sono sempre più marginali rispetto al modo in cui l'impresa pensa, opera e continua a fare soldi (…) Potrebbe sembrare sorprendente – continua Smith nel suo articolo-confessione - ma la cultura è sempre stata una parte vitale del successo di Goldman Sachs. Ha a che fare con il lavoro di squadra, l'integrità, lo spirito di umiltà e ricercare sempre il meglio per i nostri clienti. Questa cultura è ciò che ci ha consentito di guadagnare la fiducia dei nostri clienti per 143 anni (…) Se mi guardo intorno oggi non vedo praticamente alcuna traccia di ciò che mi ha fatto scegliere di lavorare per questa azienda per molti anni. Non ho più l'orgoglio né la convinzione”.

L'articolo suscitò, all'epoca della sua pubblicazione, una valanga di reazioni: dall'entusiastico supporto degli “indignados” di mezzo mondo, alle accuse di opportunismo e ingratitudine da parte di molti nella business community internazionale. Forse una crisi di mezza età, forse una insoddisfazione profonda, certamente la considerazione che il proprio lavoro aveva perso, o forse non aveva mai avuto, la capacità di generare risposte alle aspettative di senso a cui, ora, Greg Smith aveva iniziato, per qualche ragione, a dare valore. Il lavoro, anche il più prestigioso e remunerativo, se non soddisfa questa domanda fondamentale di significato, che ognuno di noi, presto o tardi, si pone, sarà sempre fonte di insoddisfazione profonda. I soldi potranno, forse, rendere tale insoddisfazione un po' più tollerabile, ma non la potranno, mai, far sparire del tutto. E' da qualche settimana che su “Mind the Economy” ci occupiamo del tema della ricerca di senso e del ruolo che il lavoro gioca in questo processo. Siamo partiti dal grande shock pandemico e dalle traiettorie di cambiamento che questo ha impresso sui modi e sui tempi del nostro lavoro, per andare a fondo ad esplorare se questo momento possa essere quello propizio per un ripensamento radicale della progettazione, dell'organizzazione, della contestualizzazione, del riconoscimento e, in una parola, del significato stesso del lavoro.

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Una delle obiezioni che più frequentemente emergono quando si fa notare l'importanza del fatto che ogni lavoro debba essere ancorato ad una radice di senso, è quella secondo cui, in qualche modo, tale possibilità non è per tutti.

Che la ricerca di senso anche attraverso l'attività lavorativa è, in fin dei conti, un lusso che pochi possono concedersi. Creative, libere, indipendenti, smaterializzate. Così devono essere le attività per poter ambire a generare senso per chi ha la fortuna di poterne fare il centro del proprio lavoro. Chi invece è vincolato in una catena di montaggio o legato alla postazione telefonica di un call center o nella precarietà di un lavoro stagionale, un cameriere, una receptionist, un bagnino, non può permettersi tale lusso. Deve accontentarsi dello stipendio, speriamo almeno regolare e giusto, con cui cercare di compensare la fatica di un lavoro, esistenzialmente, poco soddisfacente. Sono convinto che le cose stiano altrimenti. Che ci sia un orizzonte di significato aperto alle aspettative di ciascuno di noi, indipendentemente, o quasi, dal tipo di lavoro che si svolge. Abbiamo già visto che ci sono dei lavori che vengono percepiti come socialmente inutili e altri, quelli delle “sin industries”, che sono addirittura socialmente dannosi. Ma fatta eccezione per questi, la possibilità di trovare un senso in quello che si fa, non è un lusso riservato a pochi.

A patto, certo, che chi quei lavori li progetta e li gestisce, i job designer e i manager, abbiano la capacità di non annientare attraverso la loro pochezza, le promesse di senso che ogni azione generatrice di valore porta in sé. Tre esempi per i tanti altri possibili: un'acciaieria, un call center e dei bagnini, appunto. Analizzando i dati di trentasei differenti impianti, di diciassette diverse imprese, Casey Ichniowski, Kathryn Shaw e Giovanna Prennushi (“The Effects of Human Resources Management Practices on Productivity: A Study of Steel Finishing Lines,” American Economic Review 87(3), 1997, pp. 291-313.) analizzano l'effetto sulla produttività di alcune pratiche innovative di gestione del lavoro. La prima conclusione alla quale giungono è che, prese singolarmente, le varie misure hanno effetti irrilevanti; ma se combinati nel giusto mix, gli incentivi, la valorizzazione del lavoro di squadra, le mansioni flessibili, la formazione continua, il coinvolgimento della risoluzione dei problemi, canali di comunicazione costantemente aperti con il management, possono esercitare un effetto fortissimo sulla soddisfazione dei lavoratori e sulla loro produttività. La conclusione generale è che anche in una industria nella quale molte imprese ancora adottano approcci tradizionali - definizioni anguste e limitative delle varie mansioni, regole stringenti e vincolanti, remunerazione oraria e controllo asfissiante da parte dei supervisori – gli spazi e le possibilità per generare senso sono enormi.

Gli incentivi economici contano, ma, decisamente, non sono tutto. Il lavoro può essere più “smart” anche in una acciaieria, se i manager, assieme alle parti sociali, sono abbastanza capaci e visionari da immaginarlo e progettarlo “smart”. In un altro studio, Adam Grant, professore alla Wharton School e cantore degli “originali”, si è concentrato, invece, sui call center e su come la ricerca di senso profondo da parte dei lavoratori possa essere valorizzata attraverso le leve della “task significance” e del “social impact”: quanto, ciò che io faccio, influenza o è importante per gli altri che lavorano con me, all'interno della stessa organizzazione e quanto, ciò che faccio, può avere un impatto positivo sulla vita di coloro che godranno dei frutti del mio lavoro (“The Significance of Task Significance: Job Performance Effects, Relational Mechanisms, and Boundary Conditions”, Journal of Applied Psychology 2008, 93(1), pp. 108–124). In una serie di esperimenti sul campo, Grant ha preso in considerazione vari gruppi di telefonisti impegnati a sollecitare delle donazioni per un'università. Cosa succederebbe se si spiegasse a questi telefonisti fino a che punto può dipendere dal loro lavoro il futuro di tanti giovani che, solo grazie ad una borsa di studio, hanno la possibilità di frequentare l'università.

Cosa succederebbe, poi, se ogni telefonista avesse la possibilità di fare una chiacchierata di dieci minuti con un ragazzo o una ragazza che hanno, effettivamente, avuto la possibilità di frequentare l'università grazie ad una borsa di studio finanziata con le donazioni raccolte con le loro telefonate? Succederebbe che quei telefonisti scoprirebbero quanto il loro lavoro, non solo può, teoricamente e in astratto, fare la differenza (task significance), ma effettivamente la fa, cambiando la vita e il destino di tantissimi giovani (social impact). Lavorare su questi due elementi, la “task significance” e il “social impact”, è operazione delicata, ma necessaria, se vogliamo costruire ambienti lavorativi più capaci di generare senso, soddisfazione, e, come conseguenza, anche maggiore produttività. Tenere separati questi due concetti, di significatività e di impatto, apparentemente simili, è importante. Non sempre le due cose, la gratitudine di chi aiutiamo e l'aiuto effettivo che questi ricevono, vanno di pari passo. E' il caso di tutte quelle occupazioni dove può essere difficile sentirsi dire “grazie” – penso ad insegnanti, assistenti sociali, terapisti, educatori, genitori – anche da chi ha ricevuto molto ed è stato supportato e aiutato profondamente.

La mancanza di un “grazie” esplicito non toglie niente all'impatto sociale di quelle occupazioni. Significanza e impatto sociale; non stiamo parlando di elementi accessori, di orpelli per anime candide che hanno bisogno di qualche abbellimento oltre la remunerazione monetaria per sentirsi bene. Stiamo parlando di aspetti che hanno a che fare con la struttura motivazionale più profonda di ogni essere umano: sapere che il nostro lavoro non è inutile, che possiamo essere per gli altri, anche solo potenzialmente, anche solo per il ruolo che svolgiamo, per la natura del compito che ci viene affidato. Come per i telefonisti così per i bagnini.

Sempre Adam Grant si concentra sul caso dei bagnini perché la cosa interessante del loro lavoro è che, spesso, può fare, letteralmente, la differenza tra la vita e la morte, ma, in un numero non piccolo di casi, si trovano, di fatto, a esercitare il ruolo, tutt'altro che avventuroso, di guardiani di piscine all'interno di villaggi turistici ad aprire e chiudere ombrelloni, a sistemare lettini prendisole, a vietare tuffi, schizzi, schiamazzi a orde di ragazzini scatenati, abbandonati al loro stessi da genitori stremati dalle fatiche invernali. Non so se esistano dati ufficiali, al riguardo, che ci possono indicare in quali proporzione siano i bagnini avventurosi rispetto a quelli baby-sitter. Quello che alcuni esperimenti di Grant, hanno messo in luce è che, quando vengono raccontate loro le storie di altri bagnini, di ciò che hanno potuto fare in altri campi della loro vita, grazie all'esperienza maturata a bordo piscina, anche la soddisfazione dei bagnini baby-sitter, ne trae un gran beneficio.

Allo stesso modo, quando viene messa in luce, sempre attraverso la condivisione di storie di salvataggi, la concreta possibilità di essere utili agli altri, anche in questo caso si osserva un aumento significativo e a lungo termine della soddisfazione, dell'impegno e della dedizione al lavoro e della qualità dei rapporti con i superiori.Sono esempi particolari, certamente piccoli e isolati, ma che, pure, mettono in luce gli enormi spazi di miglioramento che esistono nel modo in cui la progettazione e la gestione del lavoro può essere finalizzata per facilitare e valorizzare la personale ricerca di senso di ciascuno di noi.

E questo non solo per quei lavori indipendenti, creativi e “smart” per definizione – lì sarebbe troppo semplice – ma anche per quelli che, a prima vista, di “smart” hanno poco. Anzi forse sta proprio lì la sfida più grande: introdurre innovazioni dove meno ce le si aspetterebbe, là dove si è sempre fatto così; in quegli ambiti dove sembra che i lavoratori siano rassegnati e sempre dovranno esserlo, a vivere lavori poco significativi, poco utili agli altri, che trovano la loro giustificazione solo nello stipendio che procurano. Ogni lavoro, con pochissime eccezioni, può essere o può diventare un lavoro generatore di senso. Occorre una cultura diffusa che reclami questi cambiamenti e occorrono manager dotati di spirito profetico e una buona dose di umanità. Cose che non si insegnano, ma che, certamente, si possono imparare.

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