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La riconoscenza e le armi: cosa può succedere dopo la visita di Zelensky a Roma e Berlino

La missione di Zelensky a Roma a Berlino e in Vaticano potrebbe essere - soprattutto se l'azione diplomatica di Pechino prenderà vigore in questo senso - una vera svolta, un punto da dove guardare avanti

di Gigi Donelli

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4' di lettura

La prima visita ufficiale a Roma del presidente ucraino Volodimir Zelensky si compie quando i giorni trascorsi dall'invasione del suo paese da parte delle forze armate russe sono ormai 445.

È una visita importante - per il popolo ucraino che conta su alleati di peso, ma anche per noi che guardiamo agli eventi da lontano, ma non da così tanto lontano da permetterci di essere indifferenti. Avviene e di fatto risponde all'evidenza che su questa tragedia europea e mondiale, l'Italia ha messo in campo una continuità di comportamenti, per certi versi stupefacente.

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Mi riferisco all'Italia istituzionale, quella che chiamiamo leadership e che come tale ha l'onore e l'onere di svolgere una funzione di guida. Continuità e sintonia almeno su questo tema tra i presidenti del Consiglio Mario Draghi e Giorgia Meloni, entrambi protagonisti a distanza di qualche mese dell'ormai iconico viaggio in treno verso la capitale assediata Kiev.

E poi c'è la certezza mite ma sempre ferma da parte del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: la voce preziosa di un uomo incompatibile con le accuse di aggressività che cade però come una goccia cinese, per ricordare a tutti noi presi come siamo da mille altri problemi, che esiste un giusto ed uno sbagliato, che l'aggredito non può essere giudicato con gli strumenti dell'aggressore che in Ucraina, usando le sue parole: «è in gioco il futuro di pace dell'Europa».

La visita lampo a Roma

La visita lampo del fine settimana di Volodimir Zelensky a Roma non ha solo l'obiettivo di ringraziare l'Italia. Italia che attraverso due primi ministri tra loro lontani ha saputo dunque mantenere in 15 mesi tumultuosi un tracciato politico chiaro. Come paese abbiamo affrontato lo shock della guerra, l'impatto sulle esportazioni, il ricatto energetico che nove mesi fa alcuni minacciavano ci avrebbe travolto, abbiamo fatto i conti con la propaganda e con le abitudini, che contemplano anche i rapporti opachi e le amicizie di lunga data che impediscono di guardare in faccia la realtà delle cose.

E in tutto questo tempo - e di questo Zelensky ci ha ringraziato già molte volte - abbiamo assicurato come paese una sponda di vivibilità ad un numero enorme di persone costrette alla fuga, all'esterno o all'interno del grande paese.

In questi 15 mesi di guerra, attraversando città e paesi ucraini segnati dalla paura alle spalle del lunghissimo fronte di guerra, ho avvertito più volte l'emozione fisica della gratitudine, sentimento francamente raro per chi fa il mio mestiere. Gratitudine per i giornalisti che raccontano le persone e gli eventi, per i medici e i paramedici che le curano aprendo le porte dei loro ospedali lontani, per gli ambasciatori che non lasciano il proprio posto, per l'azione della diaspora ucraina in Italia che vive l'angoscia doppia dell'essere e del non esserci, e per quell'esercito pacifico di migliaia di volontari che magari con un gesto o con qualche ora di tempo libero da oltre un anno - e senza magari nemmeno averla mai vista l'Ucraina - si sono mobilitati senza coltivare altre ambizioni se non quella di sostenere gli aggrediti.

La riconoscenza e le armi

Certo che Zelensky tra Roma e Berlino non vorrà solo ringraziare: vorrà armi, soldi, vorrà o comunque proverà ad avere tutto quello che gli serve a vincere, ora che resistere appare un fatto compiuto. Italia e Germania sono tasselli essenziali della sua azione diplomatica, per il loro peso in Europa, per le economie, ma anche per i mille fili tirati nel tempo tra noi ed il Cremlino. Il punto per l'Italia non è certo reciderli, piuttosto cambiarli, usarli per con una leadership russa disponibile a fare i conti con la tragica scelta di invadere un paese indipendente.

L'Italia non è e non deve essere un paese antiRusso, ma deve avere dei punti fermi, pochi magari, ma fermi. Deve aggrapparsi al suo ruolo naturale di media potenza ancorandosi - tra l'altro - al principio dell'inviolabilità dei confini. Dobbiamo saper ancora distinguere insomma - e ci basta guardare al nostro passato - tra responsabilità delle classi dirigenti e responsabilità collettiva dei popoli.

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L’attenzione per il Vaticano

Ma questo ovviamente è più un problema nostro che di Zelensky che nella visita a Roma mette anche in conto l'attenzione per quel mondo a parte che è il Vaticano. Tra le tante complessità dell'Ucraina c'è anche quella di essere un unicum religioso: ci sono i cattolici dell'ovest, con il loro preti che si sposano e che celebrano con il rito greco ma rispondono a Roma, gli ortodossi patriottici che mettono mano al calendario liturgico per prendere le distanze dal patriarcato russo, c'è un mondo dinamico e secolarizzato che riempie però le chiese nella pausa pranzo, tra un allarme aereo e l'altro, come da noi non sembra accada da tempo. L'Ucraina è - per tante ragioni legate alla sua storia una società frammentata ma profondamente religiosa. L'aspettativa nei confronti del ruolo del papa cattolico resta forte nonostante alcune incomprensioni. La speranza è che possa svolgere un ruolo incisivo.

Perché mentre la guerra scivola verso i 500 giorni l’impressione è che il conflitto, sempre più lungo e minaccioso, tragico per milioni di famiglie, difficilmente possa risolversi con una soluzione militare sul campo.

Ecco che allora la missione di Zelensky a Roma a Berlino e in Vaticano potrebbe essere - soprattutto se l'azione diplomatica di Pechino prenderà vigore in questo senso - una vera svolta, un punto da dove guardare avanti, oltre le nuvole insolitamente nere che hanno accolto il capo di stato ucraino all'aeroporto di Ciampino.

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