La Riforma Gentile e la necessità di far tornare la scuola al centro del Paese
La vera rivoluzione è sempre quella della cultura che è preceduta da quella dell’educazione. Nella consapevolezza, e nella responsabilità, che i risultati non si manifestano subito ma, come le uova del drago, si dischiudono dopo decenni
di Mauro Caligiuri
4' di lettura
Quest’anno ricorrono i cento anni dalla riforma dell’istruzione promossa dal ministro Giovanni Gentile, che ha profondamente segnato la storia del nostro Paese nel Novecento. Quando si analizza un evento, in genere, commettiamo l’inevitabile errore di interpretarlo con gli occhi dell’oggi, senza tenere conto che quella del 1923 era un’altra Italia, dal punto di vista economico e culturale, sociale e demografico, religioso e mentale. Come tutto quello che è avvenuto durante il fascismo, che ha colpe storiche precise e incancellabili, la riforma Gentile è stata oggetto di un certo ostracismo. Solo per la cronaca, la legge che delegava il governo a regolamentare scuola e università ebbe il voto favorevole di Giovanni Giolitti, Benedetto Croce e del Partito popolare di Luigi Sturzo. Benché non necessario, chiariamo: non si tratta di auspicare impossibili ritorni al passato, ripristinando scuole e università per pochi eletti. Si intende invece utilizzare l’occasione dell’anniversario per ribadire un’ovvietà: la centralità dell’educazione per il progresso democratico, economico e morale di un popolo. E un’istruzione di qualità rappresenta la spinta più importante per ridurre le disuguaglianze sociali, risultando indispensabile per i figli delle famiglie di medio e basso reddito, soprattutto nel Mezzogiorno, la cui distanza educativa con il Nord aumenta sempre di più. In una qualche misura, la riforma Gentile nell’Italia del XXI secolo può essere intesa come la premessa per evidenziare la necessità di un indispensabile sommario di strategie e sperimentazioni educative, per la creazione di una necessaria pedagogia della nazione in modo da delineare come il nostro Paese si presenta ai propri cittadini e al mondo. Da questo punto di vista, si tratta di un anniversario senza colorazioni politiche, che non si può attribuire a nessuno schieramento (per quello che adesso possano significare) ma che sta in alto, che appartiene all’Italia.
I provvedimenti proposti da Gentile erano improntati sulla filosofia, un sapere sempre più necessario, che aiuta a inquadrare le trasformazioni furiose della realtà. Non a caso, i servizi segreti di Israele, uno Stato che da oltre settant’anni vive una condizione di guerra permanente, stanno attualmente assumendo hacker e laureati in filosofia: i primi per individuare le informazioni nei recessi più reconditi della Rete e i secondi per interpretarle. Una dimostrazione in pratica di come si possa affrontare lo scontro in atto tra intelligenza umana e intelligenza artificiale, dagli esiti quanto mai incerti. Pertanto, porre all’attenzione nazionale la centralità della questione educativa significherebbe affrontare il problema principale del nostro Paese.
Potrebbe essere invece significativo valutare, in modo scientifico, le effettive ricadute della riforma Gentile sull’istruzione nazionale, comparandole sia con la situazione precedente che con quella successiva, sia italiana che degli altri Paesi. Il tema principale che proporrei è quello dei “tempi educativi”, in base ai quali gli esiti di qualsiasi riforma scolastica si dispiegano dopo decenni. Scrive Koeno Gravemeijer della Eindhoven University of Technology: «Nell’educazione ogni cosa succede cinquant’anni più tardi». Partendo da questa considerazione, sia la redazione della Costituzione, maturata nell’immediatezza della temperie di un immane conflitto, che il boom economico degli anni 60, potrebbero essere stati in parte determinati dal sistema educativo sviluppatosi dopo la riforma del 1923 che ha formato quei diplomati e laureati che hanno consentito la ricostruzione democratica ed economica dell’Italia. Analogamente, il centenario della riforma potrebbe rappresentare un’utile occasione anche per approfondire come l’istruzione pubblica abbia concorso a creare quel pensiero critico che è stato determinante nelle rivolte giovanili del ’68, con le fondamentali conquiste dei diritti civili da un lato e le devastanti derive estreme del terrorismo politico dall’altro. Oggi, infatti, stiamo constatando le conseguenze delle politiche educative del ’68, accentuate enormemente dalle riforme senza soste di scuola e università che si sono susseguite dalla fine degli anni 90. Tutti interventi che, nella lettura critica di Luca Ricolfi e Paola Mastrocola, hanno dato vita a istituzioni educative che hanno dato vita a una «fabbrica della diseguaglianza», creando un’Italia clientelare dove prevale l’appartenenza sul merito. Si deve a Gennaro Sasso avere tenuta accesa l’attenzione sul pensiero di Giovanni Gentile, mentre negli ultimi anni le considerazioni sul suo pensiero educativo sono state praticamente assenti. Da segnalare l’attenzione dell’Istituto Treccani e una recente iniziativa della Società italiana di pedagogia. L’occasione dell’anniversario della riforma Gentile non può essere intesa come esaltazione di un modello educativo maturato un secolo fa quando l’Italia e il mondo vivevano una fase del tutto diversa della storia. Occorrerebbe, quindi, considerare che la costante facilitazione dei percorsi di studio dopo il ’68 ha complessivamente contribuito ad allargare i divari territoriali tra Nord e Sud e tra i figli delle famiglie ricche e i figli delle famiglie povere, accentuando le disuguaglianze. Partire dall’educazione per fare ripartire il Paese potrebbe essere la pista privilegiata, anche se i tempi di impatto delle politiche non sono certamente immediati. Appunto per questo, diventa fondamentale verificare e vigilare sull’efficace utilizzo dei fondi del Pnrr, per avviare percorsi davvero innovativi e strutturali sulla povertà educativa e sulle differenze territoriali del nostro Paese.
I dati della debolezza italiana sono noti. Tra gli ultimi si ricordano la fuga dei laureati. Proprio su questo giornale il 20 marzo scorso si è evidenziato che tra il 2012 e il 2021 l’8% dei laureati italiani ha scelto di lavorare all’estero, una delle percentuali più alte dell’Ue. Un recentissimo studio di Talents Venture ha rilevato che addirittura un terzo dei dottorati italiani non rifarebbe esattamente lo steso percorso di ricerca, sintomo di un disallineamento preoccupante tra aspettative e realtà. Porre, allora, l’educazione al centro del dibattito politico significa riflettere sui temi ineludibili del merito, della responsabilità sociale dell’educazione, dei meccanismi di formazione e selezione dei docenti scolastici e universitari. Parlare oggi della riforma Gentile significa porsi sul serio il problema della qualità della democrazia in Italia. Pertanto, mi permetto di rivolgere un invito al premier Giorgia Meloni e ai ministri Giuseppe Valditara e Anna Maria Bernini a ricordare questo anniversario, ponendo concretamente al centro dell’azione politica le riforme strutturali dell’istruzione scolastica e universitaria. Infatti, la vera rivoluzione è sempre quella della cultura che è preceduta da quella dell’educazione. Nella consapevolezza, e nella responsabilità, che i risultati non si manifestano subito ma, come le uova del drago, si dischiudono dopo decenni.
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