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«La rinuncia»di Benedetto XVI, i retroscena di un gesto storico

di Carlo Marroni

3' di lettura

È la mattina dell’11 febbraio 2013. Nella sala del concistoro, dentro il Vaticano, si celebra la canonizzazione dei martiri di Otranto, uccisi nel 1480. Assistono alla cerimonia i cardinali presenti a Roma. Attorno alle 11.25 Benedetto XVI conclude la lettura, qualche cardinale inizia ad alzarsi per salutare il Papa e avviarsi ad uscire. Ma lui resta seduto. Tutti si guardano, chi si era alzato si risiede, gli altri restano fermi, non capiscono (qualcuno sì, lo si saprà dopo). C’è un fuori programma, ormai appare chiaro. Un sacerdote gli si avvicina, gli porge un foglio. E lui attacca, lento: «Fratres carissimi, Non solum propter tres canonizationes ad hoc Consistorium vos convocavi, sed etiam ut vobis decisionem magni momenti pro Ecclesiae vita communicem…».

Una breve lettura, 20 righe in latino (in un paio di passaggi la declaratio viene pure contestata da qualche purista della lingua) per chiudere il pontificato. Una lama di ghiaccio taglia la storia della Chiesa, ma ancora lo sanno solo i pochissimi dentro la sala. La cerimonia viene trasmessa del circuito Tv vaticano, un occhio attento segue dalla sala stampa, l’unico per la verità. È quello della giornalista dell’Ansa Giovanna Chirri, che capisce il latino, chiede subito conferma a padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa, che aveva preparato con cura l’arrivo della slavina mediatica. Esce la notizia, la bomba esplode.

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«Era un giorno di festa in Vaticano, c’erano pochissime persone» ricorda Lombardi a dieci anni esatti dagli eventi straordinari. L’11 febbraio è l’anniversario dei Patti Lateranensi, la data di nascita dello Stato, un po’ come il nostro 2 giugno. «Mi preparai a comunicare le notizia, il bollettino in varie lingue pronto per essere emesso al momento giusto» ricorda l’allora “portavoce”, che richiamò in servizio tutti i collaboratori. Ma perché una dichiarazione in latino, perché quella forma? «Il Papa non si può dimettere con un comunicato della sala stampa» disse Lombardi per spiegare alla frotta di giornalisti nel frattempo accorsi che la forma ha una sua valenza. Le dimissioni sono racchiuse in tre righe del diritto canonico, il canone 332 comma 2: «Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti». Domenico Giani, allora comandante della Gendarmeria vaticana, in pratica il capo della polizia e dei servizi segreti di Sua Santità, ricorda che vide passare i cardinali attraverso il cortile di San Damaso «con le facce sgomente, miste a stupore e incredulità».

Fu una sorpresa completa? Per Lombardi non del tutto: «Chi lo seguiva da vicino si era reso conto da tempo che per esempio considerava che i viaggi all’estero, con quello in Libano del settembre 2012, erano da considerarsi terminati». Segnali c’erano stati, ma non era così immediato tradurli in campanelli veri. Andrea Tornielli, direttore editoriale della Santa Sede e, al tempo della rinuncia, vaticanista del quotidiano La Stampa, commenta che «alcune decisioni di Benedetto potevano ben considerarsi legate a questo passo, prima tra tutte quella di consacrare arcivescovo il suo segretario particolare, rendendolo Prefetto della casa pontificia».

Il riferimento è alla nomina di Georg Gänswein alla vigilia della rinuncia, ma anche la “creazione“ di sei cardinali a novembre, un pacchetto di nomine del tutto inatteso. Non solo: «Benedetto XVI da cardinale era stato quello che più a lungo aveva vissuto a fianco di Giovanni Paolo II e aveva conosciuto bene le difficoltà del Papa gravemente malato e le conseguenti difficoltà di governo. Credo che al momento di accettare l’elezione avesse maturato la convinzione che non avrebbe voluto che anche il suo pontificato potesse attraversare una situazione simile» aggiunge Tornielli. Il pontificato è costellato di crisi, ma per lo storico Alberto Melloni quella di Ratzinger non è affatto una resa: «Come altre rinunce non è che si fa quando si è deboli, la si fa prima». Insomma, la fa «in un momento in cui era pienamente nelle sue forze». Concorda il giornalista e scrittore Luigi Accattoli: «Se avesse avvertito di essere pressato da circostanze e persone a rinunciare, avrebbe resistito».

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