La scuola come incontro di culture
di Nunzio Galantino
4' di lettura
La scuola non trova pace. Alla scuola, per fortuna, ci si appassiona ancora. Della scuola ancora si parla. Alla scuola e alla formazione si destinano - ancora e per quanto insufficienti – risorse. La scuola “tiene” soprattutto grazie a uomini e donne che sanno preservare questo straordinario luogo di formazione da ideologismi insopportabili; malattia mortale che mira solo a penalizzare e a mortificare chi non si adegua alla dittatura del pensiero unico e a prassi rancorose. Basta vedere con quanta superficialità si maneggia in Italia il tema delle scuole pubbliche paritarie. Un approccio lontano mille miglia da quello consapevole, attento e culturalmente avanzato praticato nel resto dell’Europa. Un’Europa invocata a proposito e a sproposito nelle sue “raccomandazioni” e del tutto ignorata nella prassi che regola il settore della formazione da chi si ostina a considerare la scuola come un campo di battaglia per far valere obsolete pretese di egemonia (?) culturale. Quanti continuano a impegnarsi lealmente per una scuola libera e capace di formare deve spesso fare i conti con persone per niente interessate alla cultura, impaurite dalla libertà di insegnamento, sempre pronte a brandire l’arma del ricatto. Vittime di questi comportamenti, prima e oltre che le strutture, sono le famiglie e sono i nostri ragazzi in formazione. Vittima principale è la cultura. Gli esempi con i quali spesso i nostri ragazzi sono costretti a misurarsi non aiutano. La passione con la quale, in tanti, cercano di portare avanti progetti politici e modelli di vita rischia a volte di trasformarsi, sul piano della comunicazione, in aggressione volta a delegittimare chi mostra qualche perplessità o avanza proposte alternative. Ma è proprio di questo che abbiamo bisogno? Continuo a chiedermelo soprattutto in presenza delle parole in libertà e di vere e proprie volgarità che transitano soprattutto sui social. Sembra quasi che se rinunzio a entrare nell’arena o rifiuto di schierarmi possa, al massimo, meritarmi l’accusa di insignificante buonismo.
Sembra che i ripetuti inviti del Papa a spendersi per una “cultura dell’incontro” facciano una enorme fatica a trovare ascolto. La “cultura dell’incontro” è prima di tutto incontro con le culture, ma non nel senso astratto di sistemi teorici codificati, bensì nella concreta prospettiva di incontro tra persone e gruppi portatori di valori, tradizioni, lingue, visioni religiose e stili di vita plurali. Questo deve avvenire soprattutto per i luoghi di formazione: nella scuola e nell’università. Anche quando queste – come avviene in gran parte del mondo - sono espressione di una chiara identità culturale. È importante ovviamente che sappiano accogliere senza pregiudizi quanti chiedono di entrare nella loro comunità di vita e di ricerca, e a tutti offrire un patrimonio con cui confrontarsi senza sentirsene ingabbiati ma da esso sospinti sempre oltre. «Solo una cultura viva, allo stesso tempo fedele alle proprie origini e in stato di creatività – ricordava Paul Ricoeur in La questione del potere – è capace di sopportare l’incontro con altre culture, e anche di dare un senso a quell’incontro». Come dimenticare quanto affermava Benedetto XVI: «per essere se stesso, ognuno ha bisogno dell’altro»?
Così intesi, tutti i luoghi di formazione e di ricerca si configurano come luoghi di fecondo dialogo intergenerazionale, espresso nel vivo di relazioni interpersonali che, se autentiche, non negano la diversità delle funzioni e dei ruoli. La stessa dinamica della ricerca scientifica vive di procedure e metodologie complesse da rispettare, di competenze specialistiche da acquisire, ma ha anche bisogno di sincere attitudini collaborative e di comprovate forme di onestà intellettuale. È il metodo che papa Francesco ha chiesto alla Chiesa italiana nel suo discorso al Convegno ecclesiale nazionale di Firenze, là dove ha esortato: «Vi raccomando, in maniera speciale, la capacità di dialogo e di incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti». Per giungere a questa prassi di ascolto reciproco e di scambio fiducioso, serve un impegno serio, intellettuale e affettivo, da parte di tutti.
La cultura dell’incontro si impara più dalla vita che dai libri, ma va comunque posta a tema e approfondita anche nei suoi risvolti politici, economici, scientifici. Non solo. L’incontro a cui deve aprirsi ogni percorso culturale è anche incontro con gli orizzonti della trascendenza, che non possono essere esclusi dai luoghi in cui si indagano le istanze dell’umano, si approfondiscono le dinamiche sociali emergenti, si pongono le basi del futuro.
Di fronte alla cultura dell’incontro, si erge ben chiara la “cultura dello scarto”, che anche nella scuola e in università può trovare spazio, finendo col perpetuare logiche di competizione esasperata o replicando meccanismi di esclusione di cui vediamo gli esiti nella nostra società. Il mondo di oggi conosce infatti il tragico paradosso di aver superato vecchie frontiere e inimicizie e allo stesso tempo aver innalzato nuove barriere, non solo fisiche ma anche di conoscenza e di accesso al sapere.
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