Verso la Milano Fashion Week

La selezione della bellezza: chi c'è dietro i volti delle top model più note e pagate al mondo

Piero Piazzi, tra i nomi più affermati della fashion industry internazionale, spiega come sono nate Marpessa, Linda, Carla, Mariacarla. E come la moda può ripartire.

di Laura Leonelli

Piero Piazzi, direttore worldwide di Women Management, con Fien, Verena, Carol, Nabou, Aurora, Nyagua, alcune delle new faces dell'agenzia.

6' di lettura

Forse non lo sa, ma, ogni volta che sorride, Piero Piazzi protesta. Il suo è un sorriso militante non solo perché miete vittime tanto è luminoso, ma perché, visti i tempi in cui viviamo, è una dichiarazione controcorrente, un manifesto di gentilezza e di equilibrio come ormai non esiste più. Piero Piazzi sorride perché, da 30 anni, è circondato dalla bellezza femminile di donne “estreme”: Marpessa Hennink, Linda Evangelista, Carla Bruni, Mariacarla Boscono e più di recente Chiara Scelsi. Ma soprattutto Piero sorride perché sa, e lo sa sulla sua pelle di uomo bellissimo, ex modello e oggi presidente worldwide dell'agenzia Women Management (il giro di affari di Women/Milano è di 12 milioni di euro l'anno), che la bellezza, e il potere che dà la bellezza, la ricchezza che regala, sono fragili. Destinati a cambiare nel tempo. Di fronte al tempo, non esiste nulla di meglio che una compostezza serena e accogliente. Si sorride, appunto.

Piero Piazzi. Foto Luc Braquet.

«D'altronde questa pandemia ci sta insegnando molto». Di certo ci ha messo di fronte alla fragilità. Di certo, ha imposto una nuova scala di priorità. «Chi ha fatto cose vere, chi ha coltivato arte, talento e qualità, chi ha continuato a portare avanti la moda come un progetto di ricerca, di artigianalità e fatto bene, sono sicuro che andrà avanti. La gente non ha più voglia di spendere per cose futili, ha voglia di autenticità. Meno ready to wear e più valore. Ma voglio pensare che tutto ciò porterà a una selezione naturale. Pulizia e meritocrazia: sono queste le due nuove parole chiave».

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Fra i nuovi volti di Women, Sculy Mejia. Foto Nathaniel Goldberg.

A sorridere quest'uomo, che ha seguito da protagonista in passerella e dietro le quinte l'evoluzione della moda, ha cominciato da bambino, anche solo per una questione geografica: è nato a Bologna, nel 1963, «e quando da ragazzo venivo a Milano, in questa città fredda, severa, che allora odiavo e che adesso adoro, sorridevo e venivo frainteso. I milanesi non capivano». A dire la verità, qualche problema di comunicazione c'era anche a casa, nel regno incantato, perfetto, dunque falso, di una famiglia borghese molto cattolica, molto colta, un padre importante e distante, una madre bellissima ¬ «io le assomiglio», conferma Piero ¬ e anche molto infelice, un fratello, una sorella di 12 anni più grande, «che, nel 1968, quando mi faceva da baby-sitter, mi portava di nascosto alle assemblee dei sessantottini». Pugno chiuso e collettivo.

Nella famiglia Piazzi, invece, regnava il verticismo, «bisognava eccellere. Dovevo essere il primo a scuola, il primo nello sport, tantissimo tennis, e il primo anche nello studio dell'inglese. Per questo, da quando avevo 11 anni, d'estate venivo spedito a casa di amici nel Massachusetts: erano giornate bellissime, trascorse in piscina e a cavallo». Qualche anno dopo, di nuovo d'estate, Piero torna a casa dal mare, Riccione questa volta, e sta per prepararsi per l'ennesimo viaggio negli Stati Uniti, quando, alle 10.25, sente un boato. È il 2 agosto 1980, la strage di Bologna. Piero ha diciassette anni e forse quell'evento, che distrugge l'Italia, lo spinge a cambiare destino. Tre donne sono complici.

A Milano, «per caso, grazie a una carissima amica di mia madre, che chiamavo zia, incontro Rosanna Armani, e Rosanna mi chiede se non ho mai pensato di fare il modello. Che cos'era la moda per me, allora? Jeans e giubbotto di jeans». Piero coglie l'occasione, e sarà perché aveva «un carattere tosto» lascia tutto e si ritrova a New York, modello dell'agenzia di Beatrice Traissac: alto, biondo, zigomo americano nato per essere scolpito dalla luce delle praterie, e insieme carattere italiano, «gesticolo sempre e chiacchiero con tutti». Tutti, allora, erano Richard Avedon, Irving Penn, Herb Ritts, Gian Paolo Barbieri. E tutti erano anche i volti di un'Italia che, negli anni Ottanta, stava cambiando faccia, esuberante, ricca, forse arrogante.

New face di Women: Dija Kallon.

«Quando tornavo a Bologna, i miei amici d'infanzia mi ribaltavano, “stai attento, perché stai perdendo il senso della realtà”, mi dicevano e avevano ragione, e io li ho ascoltati anche se era difficile resistere a quel fiume in piena. Mi ricordo benissimo la sfilata di Trussardi in Piazza del Duomo. Io sfilavo e in platea c'erano Craxi e sua moglie, e, pochi mesi dopo, la stessa coppia aveva portato due giubbotti di Trussardi a Ronald e Nancy Reagan. Mi ricordo anche una sfilata di Gucci alla Casa Bianca. Questo per dire che allora la politica sosteneva la moda, la moda era ambasciatrice, anche perché non c'è nulla come la moda per fotografare la storia in cui viviamo. Pensiamo al decennio successivo, gli anni Novanta, una moda pazzesca e l'economia mai così forte. Arriva la Guerra del Golfo e la moda inizia a vacillare, poi le Torri Gemelle, il colpo di grazia».

Nel 1985, non per noia ma per dovere Piero, che all'inizio della sua carriera di modello guadagnava in un giorno un terzo dello stipendio mensile di suo padre, dirigente della Poligrafici Editoriale, decide di finire Giurisprudenza. Mancano tre esami alla tesi, quando Beatrice Traissac gli chiede di rilanciare il settore donna della sua agenzia. Una causa più interessante, un'altra legge. Quella dell'imperfezione che diventa luce, cifra, personalità. Un giorno entra in agenzia Marpessa Hennink. «All'epoca esisteva ancora una netta distinzione tra fotomodelle e indossatrici, chi posava per i giornali e chi sfilava. E Marpessa sfilava, elegantissima, la chiamavano la contessa, ma non posava perché dicevano che aveva le occhiaie. Io l'ho imposta, ci credevo, sono andato da Fabrizio Ferri, da Ferré, da Versace, da Dolce & Gabbana e quelle occhiaie sono diventate il suo segno di riconoscimento», prosegue Piazzi.

Nuovi volti: Loli Bahia. Foto Nathaniel Goldberg.

Ancora pochi anni e Gianni Versace compie la rivoluzione, chiude il cerchio e fa sfilare in mezzo a Dalma Callado, a Sonia Cole e a Marpessa, una Linda Evangelista ancora traballante. «Fu l'inizio di una camminata completamente diversa, senza tante giravolte, piroette e pose, come per le sfilate di Thierry Mugler, basti pensare a Grace Jones in passerella. Con Linda cambia tutto: la sfilata diventa un avanti e indietro sexy, secco, puro woman power».

Gli anni Novanta sono l'epoca d'oro delle top model, «nate in un momento di vuoto hollywoodiano, nel senso che non c'erano attrici nelle quali le ragazze potevano identificarsi o ritrovare quell'opulenza, quel successo, quel fascino che Naomi, Cindy, Christy, Linda sapevano trasmettere. Era un sistema di corrispondenze perfetto, modelle, stilisti, riviste, lettori, uno indispensabile all'altro. Se non avevi le top model in pedana, eri nessuno. E si spendevano cifre folli, 10mila, 15mila dollari a sfilata, quando un dollaro valeva duemila lire. Poi è arrivato questo». E quando Piero Piazzi dice “questo”, alzandolo dal tavolo e tenendolo tra le mani come uno scettro o un'arma, indica il cellulare.

«Con questo è cambiato tutto, perché il tempo non esiste più. Non fai in tempo a radicarti, che sei già dimenticata, è tutto usa e getta, new faces comprese». A parlare sono le cifre. Una top model degli anni Novanta guadagnava tre milioni di dollari l'anno. Oggi, almeno prima della pandemia, il guadagno di una new face era di circa 200mila euro l'anno. Certo, ci sono ancora le eccezioni, quel prosieguo glorioso della stagione delle top nel volto e nella personalità dirompente di Mariacarla Boscono, «l'unica in grado di ritirarsi e riapparire in scena ancora più forte».

Nuove modelle: Kayako. Foto Luigi & Iango.

Poi ci sono loro, le giovanissime, contemporanee alla schiavitù del ricambio tecnologico. «Queste ragazze non vivono, è un'illusione, un giorno fanno una sfilata importante e il giorno dopo non le ricorda più nessuno. Ma non sono poi così traumatizzate, sono una generazione più forte di noi, più cinica, più fredda, sono glaciali perché hanno questo», e di nuovo Piero prende in mano l'Iphone. «Io a queste ragazze spiego che questa vita è una parentesi, ma sono io il primo ancora a dovere imparare. A un certo punto della mia vita ho usato il botulino perché non mi accettavo, poi ho smesso. Adesso sto bene, mi dà molta pace aver sposato una donna meravigliosa che ha dieci anni più di me. Amo molto le sue rughe e amo tutto quello che ha creato intorno a sé, i figli, i nipoti. È lei che mi ha dato equilibrio. Ecco, se non hai creato nulla, al di là della tua bellezza, può essere davvero difficile». Guarda lo schermo dello smartphone dove compare la fotografia di un bambino. Si chiama Enea, nome da fondatore di civiltà. Nome dal tempo lungo.

Piero sorride e prova, ancora una volta, a immaginare il futuro, oltre la pandemia, oltre la crisi economica, oltre lo schermo del monitor dove anche questa edizione della Milano Fashion Week si svolgerà principalmente: delle 61 sfilate previste in calendario dal 23 febbraio al 1 marzo, 42 saranno solo digitali. «Voglio pensare che tutto quello che ci sta succedendo porterà qualcosa di positivo. Dare valore ai veri valori. Riprendere a lavorare con talento e umiltà».

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