politica 2.0

La sentenza allontana il voto ma il lavoro diventa il cantiere del «politichese»

di Lina Palmerini

Palazzo della Consulta (Ansa)

3' di lettura

La Corte ha disinnescato il pretesto più urgente per andare al voto subito. Il Pd e il Governo non avrebbero retto un referendum sull’articolo 18 e una probabile, nuova batosta. La Consulta ha tolto un argomento politico a chi voleva il voto subito, entro la primavera. Un argomento al quale sarebbe stato difficile opporsi anche da parte di chi, dentro il Pd e diversamente dai renziani, continua a non volere le urne subito. Sarebbe stata troppo pericolosa per tutti l'avventura di un nuovo test popolare soprattutto su un tema come quello dell'articolo 18 che tocca con mano il malessere sociale e risveglia la partecipazione. Non avrebbe retto il partito e non avrebbe retto il Governo Gentiloni a una nuova sconfitta guidata dagli stessi oppositori che hanno vinto il 4 dicembre scorso. Anche per il Quirinale sarebbe stato complicato non prendere atto della seconda, pesante bocciatura degli italiani a un’altra legge che, come quella costituzionale, ha definito l'Esecutivo Renzi e l'attuale maggioranza. Dunque, le elezioni sarebbero state la strada obbligata per far slittare il referendum, per non arrivare alle urne con le ossa rotte da due sconfitte consecutive.

Con la sentenza di ieri tutto questo non c’è, salta il quesito più temuto e si libera la via verso la scadenza naturale della legislatura nel 2018. Un segnale in più per Renzi che deve raffreddare la sua fretta elettorale. Le condizioni per bruciare i tempi non ci sono oggi e – forse - non ci saranno nemmeno nelle prossime settimane quando arriverà l’altra decisione della Consulta sulla legge elettorale. Se il piano A era quello di una corsa in velocità per capitalizzare i “sì” al referendum costituzionale, ora è più realistico che si apra un orizzonte diverso, più lungo, nel quale dovrà scalare le marce e rallentare.

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L’articolo 18 esce, così, di scena ma sul campo restano due quesiti – sui voucher e sulla responsabilità solidale in materia di appalti - su cui il Pd già si sta attrezzando per correre ai ripari con correttivi ad hoc. Non da ieri nel Governo si ragiona su come limitare gli abusi dei buoni lavoro ma lo fa con un calcolo miope che punta solo a limitare i danni politici di un referendum. L’ottica è quella di evitare un ostacolo, usare la tattica con la stessa attitudine usata per le leggi elettorali senza l’ambizione di capire tutti gli stravolgimenti che attraversano il mercato del lavoro. Non c’è solo la disoccupazione, che è l’emergenza, ma c’è anche un’occupazione povera per reddito e tutele, c’è un difetto di redistribuzione macroscopico tra livelli professionali, una diseguaglianza che non è più tra insiders e outsiders ma tra lavoratori e vertici, una dinamica salariale che gli 80 euro non hanno rivitalizzato. Su tutto questo c’è un vuoto di idee e di analisi, un ritardo culturale a sinistra come a destra. E il sindacato che una volta era una controparte – nel bene e nel male – anche della politica, continua a guardarsi indietro. La Cgil ha provato a rimettere in scena l’articolo 18, dopo 15 anni dalla battaglia di Sergio Cofferati, senza vedere che nel frattempo il disagio si è allargato. E con l’aggravante di chiedere un referendum sui voucher mentre li utilizza, tanti o pochi che siano.

Il risultato è che una grande questione come il lavoro non riesce a trovare i suoi interpreti. E scivola lentamente nella categoria del politichese: proprio come la legge elettorale, diventa un déjà-vu senza novità. Se non quelle delle sentenze della Consulta.

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