l’editoriale

La sfida di Atlantia ai profeti del declino

di Alessandro Plateroti

4' di lettura

L'ipotesi di un'acquisizione del gruppo spagnolo Abertis da parte di Atlantia, la holding infrastrutturale della famiglia Benetton, sembra aver entusiasmato per ora più la Borsa che il Paese. I mercati, visto il rialzo messo a segno ieri dal titolo del gruppo italiano, sembrano aver capito meglio delle istituzioni (e di molti profeti del declino inarrestabile) non solo il valore industriale e finanziario di un deal da 60 miliardi di euro di valore aggregato, ma anche quello industriale e soprattutto quello simbolico, visto che ormai da parecchi anni sono i colossi esteri ad acquistare i migliori gruppi italiani.

Eppure, solo dall'estero si sono sentite parole di apprezzamento per la forza finanziaria e progettuale dimostrata dal management di Atlantia e dalla famiglia di Ponzano Veneto in uno dei settori più critici e strategici per l'economia italiana e internazionale: autostrade, aeroporti, telecomunicazioni, sono settori in cui ci siamo abituati a cedere il passo ai concorrenti esteri, ai cinesi soprattutto, eppure è proprio in questo ambito che si giocheranno le carte più importanti di una ripresa economica oggi elusiva e incapace di creare occupazione. «Atlantia non vuole pagare il pedaggio ai teorici del declino», ha spiegato un importante banchiere milanese che è al lavoro sul take over, non nascondendo la sorpresa per la sostanziale indifferenza che sembra circondare il blitz dei Benetton: «quando l'impresa di famiglia ha un management che ragiona in un'ottica di lungo periodo - conclude il banchiere - è più solida di una public company». Perché al di là degli aspetti tecnici e finanziari a cui guarda la Borsa, c'è qualcosa di più “intangibile” in questa operazione che meriterebbe in Italia maggiore attenzione: la resilienza dell'industria privata all'assenza di un sistema-paese alle spalle. I continui riassetti della Cdp e le operazioni tra aziende di Stato (come la recente accquisizione dei cantieri navali francesi Stx da parte di Finmeccanica), hanno un significato relativo se non accompagnate da un vero sostegno «di sistema» alle iniziative del settore privato. Un mercato dei capitali serve a poco se non ci sono «veri capitalisti» da finanziare. E  questo aspetto, soprattutto alla luce delle tensioni che circondano non solo il controllo di Telecom Italia ma anche le altre società con un capitale a controllo diffuso, non è affatto di poco conto.

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Pur con le cautele del caso, appare infatti sempre più chiaro che se la debolezza della finanza d’impresa è legata alla carenza di un vero mercato italiano dei capitali, anche l’instabilità societaria delle nostre poche public companies è il risultato dello stesso problema. In altre parole, crescere e investire senza avere alle spalle lo Stato o la garanzia di una famiglia di controllo e di un management che credono nella propria storia imprenditoriale, è diventato estremamente difficile in un sistema in cui solo l’impegno del sistema bancario è in grado di compensare i bisogni di capitale delle aziende: criticare le banche quando tirano il freno sui rischi è facile, ma sostituirle nel ruolo di stampella del capitalismo italiano sembra ancora impossibile. Vicende come il dossier-Abertis sembrano dire proprio questo, vista l’abbondanza di banche italiane pronte ad affiancare i Benetton e l’ad di Atlantia Giovanni Castellucci nell’eventuale take over del gruppo spagnolo. Insomma, checchè se ne dica, un sano rapporto tra imprese a controllo famigliare e sistema bancario resta l’asse più importante su cui si regge il sistema economico italiano.

Sotto quest’ultimo profilo, vale la pena evidenziare anche un altro aspetto di questa operazione che riguarda invece gli spagnoli. La Caixa in primis ma anche altre istituzioni finanziarie iberiche minori azioniste di Abertis hanno ancora un posto nel board del gruppo spagnolo solo grazie alle iniezioni di capitale con cui sono state salvate dalla Bce, dalla Ue e dal Fondo Monetario: uscire o diluirsi cedendo ora il passo a un nuovo socio europeo a forte valenza industriale è non solo nel loro interesse, ma forse anche in quello del contribuente europeo. Se il titolo di Abertis è salito infatti di circa il 20% da inizio anno, è proprio perchè il mercato è convinto che la società sia facilmente scalabile: sarebbe come minimo una beffa se ad aggiudicarsela fosse alla fine uno dei tanti colossi finanziari infrastrutturali targati Pechino. Insomma, anche per chi non si appella all’italianità, valutare l’importanza di mantenere in Europa il controllo di grandi realtà industriali dovrebbe essere un passo dovuto. Tantoppiù che, per quel che è trapelato finora, una delle condizioni essenziali poste da Atlantia agli spagnoli è che il colosso da 60 miliardi di euro di capitalizzazione che emergerebbe dalla fusione sia gestito dal management italiano, senza ipotesi di caroselli a scadenza predeterminata come è avvenuto in altre operazioni.

E anche se c’è chi dice, a questo proposito, che il percorso avviato dai Benetton per Atlantia sembra più orientato verso l’estero che sull’Italia, per ora poco importa: essere i primi in Gallia (l’Italia) e gli ultimi a Roma(l’Europa) non giova certamente a nessuno nel lungo periodo. Nel caso specifico, anzi, è proprio la forte presenza a fianco dei Benetton di soci istituzionali italiani ed esteri a rappresentare la peculiarità e la diversità della galassia Atlantia, tanto che per alcuni analisti si tratta dell’unico vero «fondo sovrano» infrastrutturale made in Italy.

Già una decina di anni fa, infine, c’era stato un tentativo di fusione tra i due gruppi, quando Abertis provò ad acquisire Autostrade. L’operazione non andò però in porto perché fu stoppata dal governo italiano, che temeva la perdita del controllo nazionale su Autostrade. Da allora, Atlantia è cresciuta in ogni comparto del settore infrastrutturale, acquistando asset nel settore degli aeroporti e soprattutto delle autostrade, molto oltreconfine. Abertis ha fatto lo stesso, ma in Italia e in Sud America, comprando persino quote in società autostradali A4 Holding (Brescia-Padova e A31) attraverso l’acquisto delle azioni detenute dal Gruppo Gavio e dal Gruppo Mantovani, e persino le torri dei ripetitori che appartenevano a Wind. Anche se tutto va sottoposto alla verifica dei fatti, insomma, fondere Atlantia con Abertis non è solo una questione di scambi di pacchetti azionari e di bandiere: è l’occasione per dire che l’Italia, malgrado la crisi, ha ancora qualcosa da dire sul proprio futuro industriale. Anche in assenza di un vero sistema paese alle spalle.

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