pubblico & privato

La siccità e gli equivoci sull’acqua bene comune

di Andrea Zoppini

4' di lettura

La recente siccità e i rischi di razionamento della fornitura dell’acqua alla città di Roma hanno riproposto all’attenzione pubblica il tema dell’approvvigionamento idrico e delle regole giuridiche che disciplinano l’acqua. Ci si chiede quale sia il regime migliore, se quello pubblico o quello affidato ai privati. Sono state criticate le privatizzazioni degli ultimi venti anni, che non avrebbero garantito adeguati investimenti né una effettiva concorrenza per il mercato. Si è denunciato il tradimento del referendum sull’acqua del 2011, magari dimenticando la fonte comunitaria della disciplina. In questo dibattito ricorre frequentemente la formula, seduttiva e ambigua, dell’«acqua bene comune». Tale proposta, alternativa sia al regime pubblico sia al servizio idrico affidato ai privati, combatte le privatizzazioni degli enti erogatori, contesta la stessa possibilità di remunerare il capitale investito e mira ad assicurare la somministrazione al minor costo per l’utente.

L’acqua, in quanto bene senza forma non suscettibile di proprietà esclusiva come le altre cose materiali, è stata a lungo considerata dal diritto una risorsa illimitata e destinata al massimo sfruttamento possibile. Tuttavia, nel 1916 il pragmatismo riformatore di Francesco Saverio Nitti e Ivanoe Bonomi ispirò la creazione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, a dimostrazione che già all’inizio del secolo scorso la materia giuridica dell’acqua era considerata tecnicamente complessa e contesa da usi rivali, quello destinato alle persone, quello agricolo, quello industriale. Oggi vi è piena consapevolezza che il suo razionale uso e sfruttamento è fondamentale, proprio perché l’acqua è una risorsa limitata. È molto importante, pertanto, interrogarsi su quale sia il regime giuridico migliore non solo per l’oggi, ma anche per gli anni a venire. Per entrare nel merito dei problemi è però necessario muovere da alcuni dati conoscitivi obiettivi ed evitare facili slogan e schematismi ideologici.

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Prima di tutto, il nostro è quello tra i paesi europei in cui la fornitura idrica costa meno: 1,55 euro per metro cubo, la metà del costo della Francia o della Germania. Parimenti, in Italia la dispersione idrica è la maggiore, sempre a livello europeo, arriva sovente ad oltre il 50% dell’acqua immessa negli acquedotti, contro ad esempio il 9% della Germania. È evidente che, per il futuro, saranno necessari importanti investimenti i cui costi dovranno essere trasferiti sulla tariffa degli utenti.

In secondo luogo, la natura pubblica del bene acqua non è incompatibile con la gestione imprenditoriale della somministrazione della risorsa idrica e con la regolazione indipendente del servizio pubblico. Sono piani del tutto autonomi. Per ciascuno di essi si deve valutare quale sia la soluzione migliore al fine di garantire un servizio più efficiente e prezzi più convenienti per gli utenti. Per quanto concerne la regolazione indipendente, l’opzione che con Giulio Napolitano ho sostenuto sin dal 2007, di assegnare la competenza all’Autorità dell’Energia e che si è realizzata nel 2012 ha segnato un rilevantissimo progresso nella qualità della disciplina della risorsa idrica. Dal 2012, quanto si è avviata la regolazione indipendente dell’acqua, al 2015 anche grazie all’Autorità guidata sapientemente da Guido Bortoni gli investimenti nella filiera idrica sono aumentati del 55 per cento.

La polemica in ordine alla proprietà pubblica ovvero privata degli enti erogatori è in realtà un falso problema.Ci sono, è vero, alcuni ordinamenti che hanno compiuto una scelta radicale,imponendo esclusivamente la gestione pubblica, come l’Uruguay e l’Olanda, dove è stata adottata una legge speciale per riservare l’esercizio del servizio alla mano pubblica in forma amministrativa o societaria. In tutti gli altri ordinamenti è prevalsa l’idea che la scelta sulla titolarità del gestore debba essere rimessa agli enti locali competenti. Ciò che conta è tuttavia il regime giuridico e le regole cui la gestione privata è sottoposta. Esemplarmente nel Regno Unito il caso Fish Legal ha chiarito che le water companies privatizzate sono sottoposte agli stessi obblighi di trasparenza ambientali previsti per le autorità e le amministrazioni pubbliche. In effetti, il problema della gestione pubblica o privata, dal punto di vista degli standard di tutela degli utenti si risolve sottoponendo gli enti privatizzati alle stesse regole cui soggiacciono gli enti pubblici. La domanda fondamentale cui si deve rispondere attiene invece agli obiettivi che i concedenti e gli enti erogatori intendono perseguire.

Ci si deve chiedere, infatti, se l’obiettivo che si vuole perseguire a livello sociale sia esclusivamente quello di rendere meno costosa possibile la risorsa idrica, come sostengono i teorici dell’acqua bene comune. Basti pensare alla proposta di rendere gratuito il servizio almeno per i primi 40 litri di acqua, sul presupposto che esista un diritto fondamentale all’acqua. Oppure se si debba perseguire un indirizzo alternativo, privilegiando l’efficienza del sistema attraverso concessioni di lunga durata, sulla base di gare competitive e vigilate dall’Autorità dell’Energia. Ciò consentirebbe alle amministrazioni locali di realizzare programmi di interesse pubblico, agli enti erogatori di programmare gli investimenti necessari e alla regolazione pubblica di verificare i piani attuati dal concessionario. Si tratta di un tema rilevante anche in altri settori, come quello del gas, nei quali non esiste una effettiva concorrenza per il mercato, atteso che gli enti locali si giovano di rapporti concessori scaduti che non rimettono a gara.

Un’ultima considerazione. Per quanto possa apparire singolare, i teorici dell’acqua bene comune propongono uno schema socialmente selettivo, perché esso favorisce chi ha un’abitazione e ha un contratto di fornitura idrica. Non si occupa, invece, di chi è autenticamente bisognoso e necessita l’intervento e il sostegno attraverso politiche di welfare pubbliche. È una proposta che mira a incrementare il risparmio nel patrimonio individuale del singolo utente, a danno di una seria politica pubblica.

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