a tu per tu - Franco Maria Ricci

La solida, inevitabile bellezza di FMR

di Stefano Salis

6' di lettura

Adesso che gli anni sono 80 (festeggiati venerdì al Teatro Regio della sua città, Parma), la salute è quella che è (minata da un colpo dal quale si riprende con tenacia), le idee e i progetti tanti (tutti di eccezionale portata) realizzati con una dose di coraggio pari solo alla grandezza della visione, forse si può dire una cosa che allo stesso Franco Maria Ricci (in foto), l'editore, grafico, bibliofilo, collezionista e ideatore del più grande labirinto del mondo, potrebbe sembrare incongrua. Gli è sempre piaciuto, infatti, “ giocare” con le sue iniziali, FMR, che divennero l'iconica testata della «più bella rivista del mondo», ma hanno anche un suono che è vagamente profetico, almeno in inglese e francese. Ebbene Éphémère (cioè, «effimero», come la bellezza che insegue e poi ci insegna) è un bel gioco di parole, ma non è la verità. Perché FMR ha costruito nel tempo, e per tutti noi, un gusto e un modello di bellezza più che solido e duraturo.

E lo dimostra, paradossalmente, proprio il bel documentario, proiettato in anteprima alla sua festa al Regio (e per lui è stata una sorpresa, almeno fino al giorno prima, quando si è insospettito vedendosi piombare a casa troppi amici di vecchia data), che quel titolo riporta: Éphémère. La Bellezza inevitabile, prodotto da Catrina Producciones e realizzato da Simone Marcelli, Barbara Ainis e Fabio Ferri. Oltre un’ora di struggenti immagini e intense testimonianze: il suo magnifico labirinto di bambù costruito a Fontanellato, le sale e le opere della sua ancor più esaltante collezione d’arte, le parole di amici di sempre (Bernardo Bertolucci, Ulrico Hoepli, Inge Feltrinelli, Vittorio Sgarbi, Maria Kodama, in sostituzione del marito, il mitico scrittore Jorge Luis Borges, che gli fu a fianco in un’irripetibile avventura editoriale), ammiratori di sempre (Benedikt Taschen, il direttore del Musée d’Orsay di Parigi, Guy Cogeval), collaboratori di sempre (l’architetto Pier Carlo Bontempi e la moglie Laura Casalis, complice, compagna, braccio destro insostituibile e pungolo d’azione per portare a termine le sue molte, spesso apparentemente irrealizzabili, idee). Ma, soprattutto,le memorie di lui, FMR, affidate a un narratore fuori campo. Questo dandy elegantissimo, impeccabile nei modi e nel gusto, smilzo, fragile, con l’immancabile rosa di plastica rossa all’occhiello (leggenda vuole che fosse allegata a un dono di Tai e Rosita Missoni e sia divenuta, nel tempo, l’icona della sua presenza “scenica”), alla fine ha sorriso, ha stretto mani, ha gradito, ha ringraziato.

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Franco Maria Ricci è il simbolo concreto di un sogno di bellezza, un lampo che può dare senso alle nostre vite sperse nel quotidiano, di una raffinatezza inseguita, predicata sottilmente, e tuttavia trovata anche nei posti più impensabili – le grazie di un carattere tipografico, la forza disperatamente naif di un pittore come Ligabue, le ballerine dell’ignoto rumeno Chiparus, la sensuale e drammatica forza delle sculture di Wildt o Giandante X, i terribili “memento mori” barocchi – dove gli altri non hanno guardato. «Solo chi ha visto molto sa riconoscere davvero il bello, là dove si mostra e anche dove si nasconde. La bellezza è sempre stata un mestiere per me, è il mio modo di guardare le cose e interpretarle. È la mia vita»; così nel documentario. E ancora, in modo chirurgico: «Ci sono delle cose che io ho scelto semplicemente perché sapevo che era giusto. In un certo senso sono riuscito a scovare la bellezza dove gli altri non la vedevano o, meglio, non la vedevano ancora, per una specie di cecità. Ma la bellezza è dappertutto e da nessuna parte. Si tratta di succhiarla, di farla venire su».

Ho avuto la fortuna di essere ammesso più volte nella sua casa adiacente al Labirinto della Masone: c’è una militanza “bodoniana”, credo, per la quale mi ha riconosciuto il raro privilegio di stare accanto a lui mentre sfoglia, distende, ammira, accarezza, e spiega e contempla – la parola più giusta – l’eterna bellezza geometrica dei libri del più grande tipografo italiano, Giambattista Bodoni da Saluzzo, ma di Parma per vita, ingegno e opere immortali: l’incontro che gli ha cambiato la vita. Sì, FMR la bellezza l’ha capita davvero per la prima volta – e definitivamente – attraverso i libri, e in un artista che aveva sotto casa e che tutti invece, e per secoli, ormai davano per trapassato. Come volevasi dimostrare.

Eppure, era iniziata in maniera diversa. «Mi sono laureato in geologia e sono andato a cercare il petrolio in Turchia. Ma più che altro volevo una scusa per girare il mondo. Il petrolio non l’ho trovato e, del resto, lì non c’era, ma nel deserto del Kurdistan ho visto la tomba di Antioco I, a Nemrut Dagi. È stata un’esperienza fondamentale per me: mi ha fatto capire che le cose belle vanno tenute da conto. E mi ha fatto capire che non volevo fare il geologo».

Eccolo, ora, nel sancta sanctorum della sua collezione – non tra le opere d’arte, non tra i quadri, non tra le sculture e gli amati ritratti, Canova, Bernini e via dicendo –, ma tra i libri, i libri, quelli non visibili al pubblico, mentre tira fuori dalle vetrine, con mano decisa e svelta sapienza, i tomi bodoniani. Li conosce uno per uno, naturalmente, doppioni compresi, tende loro tutti i sensi (occhi, orecchie, tatto): sa cosa nascondono, dove guardare lo scarto dal canone, dove si cela la loro unicità. Libri celebri e ignoti, stampati su seta, miniati in pieno Settecento con mani da maestro medievale, collezioni di caratteri. «I pezzi sono 1.200 circa, ma ho anche molti doppi perché delle volte, per acchiappare un volume mancante, alle aste toccava battere lotti che ne contenevano vari. Me ne mancano pochi per avere tutto Bodoni». Secondo il catalogo ufficiale del Brooks una ventina: «In compenso ne ho molti che il catalogo ignora»: la stilettata è sorniona. È la collezione bodoniana privata più importante al mondo.

Del resto, Bodoni è la pietra miliare del suo gusto; da lui tutto è partito. E grazie a lui – ma aggiungendo il genio grafico, artistico e commerciale di questo figlio di una casata nobile genovese, primo a lavorare della dinastia... – ha poturo farsi ammirare nel mondo. «Nei primi anni 60 decisi di fare la ristampa anastatica del “Manuale” bodoniano del 1813, poi l’Oratio Dominica, il padre nostro, sempre di Bodoni, che, accompagnato da un volume con il discorso di Paolo VI all’Onu nel 1965, mi consentì di entrare al Grolier Club di New York, dove Jacqueline Kennedy mi aiutò a organizzare la vendita benefica di questi volumi, che ero riuscito a far firmare dal segretario dell’Onu, U Thant, e alcuni addirittura dal papa!, in favore della biblioteca di Firenze danneggiata dall’alluvione del 1966». Ma la vita dell’editore FMR riserva altri colpi clamorosi. «Un’impresa gigantesca, per le modeste dimensioni della casa editrice, fu la ristampa dell’“Encyclopédie” di Diderot e D’Alembert, edizione di Parigi del 1751-72 in folio. I 12 tomi di tavole nella loro integrità e 5 volumi di testi selezionati da un comitato di tutti i grandi studiosi dell’Illuminismo». Ma la più esaltante avventura (e ciò che ha dato più visibilità alla casa editrice) è certamente la rivista «FMR» (appunto!), pubblicata per più di vent’anni in quattro lingue. Il marchio di fabbrica, di stile, era quello di sempre: nero, oro, caratteri bodoniani, riconoscibile ovunque. La perfezione della stampa. Una rivista – e una casa editrice che si avvaleva di direttori di collana come Borges e collaboratori come Eco, Calvino, Barthes: nemmeno una nazionale, un “dream team” del Novecento letterario – epocale e ambiziosa: 100mila abbonati all’estero e una festa incredibile a New York per il lancio americano. «Facevo stampare tutto in Italia: non riuscivo a far capire, in una lingua non mia, come volevo che fosse fatta la mia rivista. Ci vollero otto jumbo Alitalia per trasportare gli 8 milioni di copie gratuite del numero zero. Sei milioni li spedimmo all’élite culturale ed economica statunitense e due milioni di copie vennero allegate al New York Times della domenica. Fu un’avventura folle e un investimento di miliardi di lire».

Altri tempi, altra importanza alla cultura scritta, altra presenza degli imprenditori (che sostennero la rivista con molta pubblicità), si dirà. Eppure, non è solo questione di zeitgeist, di spirito del tempo. Era lo stile unico e la novità assoluta di questo italiano che insegnava al mondo come “rifare” i libri, come renderli oggetti preziosi.

Quando FMR lasciò l’editoria, puntò tutto sull’ultima follia, la progettazione e la costruzione del Labirinto. Architettura e libri: due solide certezze, in fondo, che confermano la forza dei loro edificatori. Ma fra 200 anni, quando, come dice FMR nel film, del Labirinto e annessa piramide illuministica resteranno solo «splendide rovine», forse si capirà che sarà la carta a segnare il tempo, con la sua solida, morbida, frusciante, persistente, commovente bellezza. Perché tutto si può dire dei libri, i bei libri, tranne che siano “effimeri”. E questo lo sa bene, FMR, ed è la sua vera lezione, a futura memoria. I suoi libri gli saranno testimoni di passata, futura, inevitabile bellezza.

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