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La (sostenibile) debolezza dello yen

Oggi le pressioni al ribasso sulla valuta nipponica derivano dal deterioramento della bilancia commerciale e, soprattutto, dal sopravvenuto decoupling tra la politica monetaria della BoJ e quella delle altre principali banche centrali

di Marcello Minenna

Abenomics e riarmo, l'eredita' di Shinzo Abe

8' di lettura

Tra le tante novità che il 2022 sta riservando ai mercati finanziari internazionali c’è il forte deprezzamento dello yen. Da inizio anno la valuta giapponese ha perso quasi il 20% del proprio valore rispetto al dollaro (cfr. Figura 1), passando da un cambio di 115 a 1 (115 yen per 1 dollaro) ad uno di 137 a 1. Valori così bassi non si vedevano da più di 20 anni (agosto 1998) quando il cambio aveva superato il rapporto 147 a 1.
All’epoca l’indebolimento dello yen era stato causato dalla crisi finanziaria asiatica che si era innestata su una politica monetaria accomodante varata alcuni anni prima dalla banca centrale giapponese (Bank of Japan o BoJ) per supportare l’economia e favorire la svalutazione della divisa domestica considerata troppo forte a oltre dieci anni dagli accordi del Plaza.

TASSI DI CAMBIO DELLE PRINCIPALI VALUTE RISPETTO AL DOLLARO DA INIZIO ANNO
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Oggi le pressioni al ribasso sulla valuta nipponica derivano dal deterioramento della bilancia commerciale (aggravato, come in Europa, dalla guerra in Ucraina) e, soprattutto, dal sopravvenuto decoupling tra la politica monetaria della BoJ e quella delle altre principali banche centrali. Queste ultime, per contrastare la galoppata dell’inflazione, hanno avviato un ciclo di rialzo dei tassi d’interesse, mentre la Bank of Japan – come confermato anche nel meeting di giovedì scorso – continua a portare avanti la sua strategia di controllo della curva dei rendimenti (yield curve control o YCC) con un impegno preciso sulla scadenza decennale.

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La strategia di yield curve control

Questa strategia è stata introdotta nel settembre 2016 in sostituzione del precedente stimolo monetario che, attraverso un mix di tassi d’interesse negativi e massicci acquisti di titoli di Stato, aveva appiattito enormemente la yield curve giapponese e spinto i rendimenti delle obbligazioni sovrane su valori negativi anche sulle lunghe scadenze (fino a 15 anni) creando seri problemi di profittabilità a banche e investitori istituzionali.

Attraverso l’YCC, la Bank of Japan ha cercato di conciliare l’obiettivo di portare stabilmente l’inflazione di fondo (core, che in Giappone è uguale a quella totale al netto dei cibi freschi) sopra il target del 2% con quello di ridurre la pressione sui bilanci degli istituti di credito. A tal fine, si è impegnata a mantenere al -0,1% il tasso sui depositi e a zero il rendimento sul titolo di Stato decennale, individuando un corridoio di +/-10 punti base rispetto a tale valore (poi ampliato a più riprese sino agli attuali +/- 25 punti base). Questo impegno è assimilabile a un’opzione put ceduta agli investitori, perché questi ultimi hanno la possibilità di vendere alla banca centrale quantità teoricamente illimitate di obbligazioni sovrane a dieci anni a un prezzo prefissato.

Nei fatti, il solo commitment della banca centrale ha permesso – data la sua credibilità – un discreto recupero della pendenza della yield curve, specie sulle lunghe scadenze (cfr. Figura 2), senza bisogno di acquistare quantità particolarmente elevate di titoli governativi.

CURVA DEI RENDIMENTI SUI TITOLI DI STATO GIAPPONESI
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Anzi, con la nuova strategia la BoJ è riuscita a ridurre gli acquisti rispetto al periodo precedente. Inoltre, ha anche ottenuto dei risultati, seppur limitati, rispetto all’obiettivo di reflazionare l’economia, dato che l’inflazione core è passata dal -0,5% di settembre 2016 all’1% di febbraio 2018. Da allora l’inflazione si è sostanzialmente stabilizzata tra lo 0,5% e l’1% annuo sino all’inizio della pandemia, con una breve parentesi nel bimestre settembre-ottobre 2019 quando la crescita dei prezzi è calata temporaneamente sotto lo 0,5% soprattutto per via della riduzione dei prezzi dei beni energetici.

Le pressioni sulla Bank of Japan

Con qualche aggiustamento in itinere, la policy di controllo della curva ha funzionato senza grossi intoppi sino al 2021, favorita dal clima di accomodamento monetario condiviso dalle altre principali aree valutarie.

Quest’anno, invece, a fronte dell’inversione di marcia della Fed e delle altre maggiori banche centrali, gli investitori hanno cominciato a mettere in discussione in modo sempre più convinto l’impegno della BoJ. I mercati si aspettano, infatti, che alla fine anche la banca centrale giapponese dovrà alzare i tassi e, per questo, da mesi stanno ponendo in essere massicci convergence trades. Vendono assets denominati in yen (specie titoli governativi) con l’intenzione di ricomprarli a un prezzo più basso appena il costo del denaro aumenterà e lucrare la differenza tra i due prezzi. Nel frattempo acquistano attività finanziarie denominate in valuta forte che offrono rendimenti più appetibili spingendo al ribasso la valuta giapponese.

A creare ulteriori pressioni verso il deprezzamento dello yen c’è poi anche un revival di quelle strategie di carry trade che erano in voga prima della crisi finanziaria globale: ci si indebita in yen a tassi d’interesse molto bassi per comprare assets denominati in valute con tassi d’interesse più elevati e incassare la differenza.

Mentre lo yen si svaluta, i rendimenti dei titoli di Stato giapponesi subiscono una spinta verso l’alto. Già nei mesi di marzo e aprile il rendimento del titolo decennale si è ripetutamente avvicinato al limite superiore (cap) del corridoio fissato dalla banca centrale che ha risposto acquistando quantitativi straordinari di bond governativi per rispettare il proprio commitment.

L’episodio più critico risale tuttavia a metà giugno (cfr. Figura 3) quando, nel giro di pochi di giorni il rendimento del titolo di Stato a 10 anni ha superato due volte il cap dello 0,25%. Il fattore scatenante è stato l’ampliarsi del divario rispetto alla politica monetaria della Fed. Infatti, proprio a ridosso del maxi-aumento dei tassi da 75 punti base messo in campo dalla banca centrale USA, la Bank of Japan ha mantenuto invariati i tassi di riferimento e confermato la strategia di controllo della curva. Gli operatori di mercato hanno subito “testato” questa decisione, costringendo la BoJ ad acquisti record per riportare sotto soglia il rendimento decennale.

RENDIMENTO SUI TITOLI DI STATO GIAPPONESI A 10 ANNI E ACQUISTI DI TITOLI DA PARTE DELLA BANK OF JAPAN
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In dettaglio, nella settimana dal 13 al 17 giugno gli acquisti di obbligazioni governative hanno superato i 10.000 miliardi di yen (circa 73 miliardi di $). Si tratta di un importo enorme rispetto ai canoni di altre banche centrali (il Quantitative Easing lanciato dalla Fed a giugno 2020 prevedeva acquisti medi mensili di titoli del Tesoro USA per $ 80 miliardi) ma anche rispetto a quelli della stessa banca centrale giapponese, che normalmente viaggia sotto una media di 2.000 miliardi di yen a settimana.

Per effetto di questa impennata negli acquisti, a giugno lo stock di titoli di Stato detenuti dalla BoJ ha raggiunto i 543.500 miliardi di yen (circa 4.000 miliardi di $), pari al 50% dell’intero debito pubblico giapponese.

Le ragioni della BoJ

Alla base della decisione della Bank of Japan di proseguire con l’accomodamento monetario c’è la convinzione che l’economia giapponese sia ancora troppo debole. Il Pil non è ancora tornato ai livelli pre-pandemici e il rimbalzo atteso per il 2022 rischia di sfumare per via delle nuove ondate di contagi e della guerra in Ucraina. In un contesto così delicato, un aumento dei tassi d’interesse potrebbe persino innescare una recessione.

E soprattutto, anche se l’inflazione core è sopra il target del 2% da tre mesi di fila, secondo la banca centrale giapponese è ancora troppo presto per parlare di un’overshooting stabile. La crescita dei prezzi al netto dei cibi freschi ha registrato un grosso balzo in avanti ad aprile, passando dallo 0,8% annuo del mese precedente al 2,1%, ma ha perso afflato nei due mesi successivi confermando il 2,1% a maggio e attestandosi al 2,2% a giugno.

In più va considerato che l’inflazione core presa a riferimento dalla BoJ è molto vicina a quella totale (headline) perché esclude solo la componente rappresentata dalla variazione dei prezzi dei cibi freschi. Verosimilmente questo indicatore è stato scelto proprio perché particolarmente “benevolo” per un paese intrappolato da anni in una condizione di inflazione bassissima (lowflation) se non addirittura negativa (deflazione).

Al contrario, nella maggior parte degli altri paesi l’inflazione core è depurata anche dell’effetto dei prezzi dei beni energetici. Utilizzando questa definizione più standard, il dato del Giappone risulta ancora estremamente basso, e ormai molto distante da quello delle altre economie avanzate.

Si confronti, ad esempio, la dinamica dell’inflazione al netto di beni alimentari ed energetici in Giappone e negli USA (cfr. Figura 4). Sin dal secondo trimestre 2021 c’è stato un allontanamento tra i due paesi perché negli Stati Uniti l’inflazione ha cominciato a surriscaldarsi molto presto una volta smaltito lo shock pandemico mentre in Giappone il medesimo indicatore ha continuato la sua discesa per tutto il 2021 e ha invertito il trend solo quest’anno.

Dietro questo ampio gap inflattivo c’è la strutturale rigidità verso l’alto dell’inflazione nel paese del Sol Levante. Dopo lo scoppio della bolla immobiliare nel 1989, il Giappone ha conosciuto un periodo di deflazione durato quasi vent’anni. In seguito ci sono state diverse fasi di crescita dei prezzi, ma anche la più significativa – quella del 2013-2014 – ha avuto vita breve per via del crollo delle quotazioni del petrolio. La stessa banca centrale, approdata allo yield-curve-control dopo svariati tentativi di reflazionare l’economia, ha conseguito risultati limitati (v. sopra), il che ne spiega la persistente avversione nei confronti di una stretta sui tassi.
Del resto, secondo molti analisti la bassa inflazione è entrata ormai nel Dna dell’economia giapponese caratterizzata da rigidità salariale, invecchiamento della popolazione e modesto pass-through degli aumenti dei prezzi alla produzione e all’importazione verso i prezzi al consumo. Dopo l’esperienza scioccante degli anni ’90, i giapponesi sono diventati molto attenti a preservare la loro liquidità sicché le imprese domestiche evitano il più possibile di trasferire sui consumatori eventuali incrementi nel costo dei fattori produttivi per timore di perdere la loro quota di mercato.
Questi fattori aiutano a comprendere perché anche negli ultimi mesi la crescita dei prezzi al consumo sia stata abbastanza contenuta nonostante l’impennata verificatasi nei prezzi alla produzione e in quelli all’importazione (rispettivamente intorno al 9% e al 45% annuo).

GIAPPONE: ANDAMENTO COMPARATO DEI PREZZI ALLA PRODUZIONE, ALL’IMPORTAZIONE E AL CONSUMO
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Ovviamente un minimo effetto di pass-through c’è stato, né sarebbe potuto essere altrimenti vista la portata epocale dell’aumento dei prezzi per produttori ed importatori, guidato dai rincari record delle commodities energetiche e di altre materie prime che si collocano a monte di numerose filiere. Ma (almeno sinora) questo effetto è stato molto più contenuto che in Europa o negli USA proprio per via del diverso imprinting socio-economico del Giappone.

L’ipotesi di lavoro della Bank of Japan è che i fattori strutturali alla base della lowflation del paese restino drivers prioritari della dinamica dei prezzi e che il contributo positivo proveniente dai beni energetici sia destinato a diminuire. Pertanto, la politica monetaria seguita sinora è ritenuta la più appropriata.

Yen sottovalutato?

Anche per questo motivo la banca centrale giapponese non vede con eccessiva preoccupazione la debolezza dello yen, che infatti supporta la sua operatività in chiave reflattiva. Chiaramente la Bank of Japan (come pure il governo giapponese) monitora con attenzione gli sviluppi sul mercato dei cambi per tenere sotto controllo il rischio di movimenti anomali o repentini, ma va anche osservato che le più recenti dinamiche di mercato sembrano indicare un possibile allentamento delle pressioni al ribasso dei mercati. Giovedì scorso, diversamente da quanto successo a giugno, gli investitori hanno infatti digerito abbastanza bene la decisione della BoJ di mantenere invariata la politica monetaria. È possibile che la notizia fosse stata di fatto già incorporata nel tasso di cambio (considerato l’ulteriore deprezzamento dello yen nelle prime settimane di luglio). Ma non si può escludere che, dopo la determinazione mostrata il mese scorso dalla banca centrale giapponese, gli investitori stiano rivalutando le loro aspettative.

Dopotutto, un’analisi in prospettiva storica suggerisce che la svalutazione sperimentata quest’anno dallo yen potrebbe essere eccessiva rispetto a quella coerente col differenziale tra i rendimenti reali dei titoli governativi statunitensi e quelli giapponesi. Sulla scadenza decennale (quella più liquida e rappresentativa), lo spread tra i rendimenti reali degli US Treasuries e quelli dei titoli di Stato giapponesi attualmente viaggia sui 125-130 punti base, (cfr. Figura 6). Si tratta di valori molto più alti di un anno fa (allora lo spread era negativo, circa -100 punti base), ma che sono anche in linea con quelli osservati nel 2018 e a inizio 2019 quando lo yen valeva quasi il 28% in più di oggi.

RENDIMENTI REALI SUI TITOLI DI STATO NEGLI USA E IN GIAPPONE
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Un altro segnale degno di nota è che nell’ultimo mese lo spread in questione ha sperimentato una correzione al ribasso (ancorché contenuta), soprattutto per via del ritracciamento del rendimento nominale sul decennale Usa. Quest’ultimo fenomeno è collegato ai crescenti timori di un’imminente recessione negli Stati Uniti, riflessi dall’inversione della curva dei rendimenti verificatasi nelle ultime settimane e confermati dal fatto che gli operatori di mercato giudicano sempre più probabile una conclusione relativamente rapida del ciclo di rialzo dei tassi da parte della Fed, forse già a inizio 2023.
Visti il clima di forte incertezza sul quadro macro-economico e finanziario globale venutosi a creare a causa del conflitto russo-ucraino e i rischi che ancora permangono sul fronte della pandemia, la view della banca centrale giapponese potrebbe rivelarsi più lungimirante di quella delle sue omologhe di altre aree valutarie.

Direttore Generale dell’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli
@MarcelloMinenna

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