ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùStoria del design

La sostenibile profondità chiamata Made in Italy

Elena Dellapiana ha ricostruito con meticolosità la nascita e l’inscindibile intreccio tra cultura del progetto e immagine della nazione. Un testo fondamentale per capire le nostre radici

di Stefano Salis

il brevetto originale della caffettiera dell'«omino coi baffi», Alfonso Bialetti (1933)

4' di lettura

Adesso che la frasetta «Made in Italy» – una parolina magica che si porta bene in tutte le stagioni e serve talora ad aprire impensabili porte, e mercati – ha fatto il suo trionfale ingresso nella dicitura ufficiale di un ministero nevralgico come il Mise, ribattezzato appunto in onore delle «Imprese e del Made in Italy» (con soddisfazione, immaginiamo, dei radical chic), abbiamo – per felice coincidenza – finalmente un manuale, preciso, essenziale e totalmente condivisibile nella selezione di cosa è significativo e di come si è storicamente prodotto questo sintagma, che occorre prima di tutto raccomandarne lo studio (non la lettura: lo studio!) a tutti coloro che di tale parola-valigia si riempiono la bocca a più non posso, spesso a sproposito e ciò che ancor peggio, circondandosi poi di oggetti e arredi e prodotti che non solo non sono all’altezza della parola, ma talvolta ne sono proprio il contrario, o la parodia.

Sto parlando dell’importante volume di Elena Dellapiana, Il design e l’invenzione del Made in Italy, che rinnova al meglio la tradizione saggistica della PBE Einaudi (pagg. 320, € 25). L’autrice, docente al Politecnico di Torino, si è presa la briga di indagare, verificandolo sul campo degli studi (e cioè nei documenti provenienti dalle esposizioni internazionali e nel sistema del design che, nel Novecento, ha contato più di tutto, insieme allo sport, alla moda e al cibo, per diffondere la nostra immagine all’estero), come e perché la nostra specificità nazionale è riuscita a diventare un marchio che va ben oltre il singolo, pur eccezionale e riuscito, prodotto.

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E la foto di copertina è già significativa: evoca la tradizione della classicità latina (l’arco romano sullo sfondo) con la “modernità” della Vespa che irrompe, nella sua solare voglia di mettersi in viaggio, negli anni 50, e che cambia, per sempre, la percezione e lo status dell’Italia nel mondo. Non c’è dubbio, infatti, che esista una tale specificità nazionale e che, sono parole di Dellapiana, «corrisponde anche a una sorta di mitopoiesi degli atti creativi che ha portato nel corso del tempo a produrre e far circolare, oltre che opere d’arte, anche piatti, vasi, tessuti, abiti, automobili, scooter, cibi e bevande. Oggetti della quotidianità divenuti vettori non solo di valori estetici, ma anche di messaggi evocativi e di stili di vita (l’Italian way of life, la «dolce vita», ecc.). Tutto ciò ha consentito di far coincidere cose, merci, beni con l’essenza stessa di una nazione e con la sua tradizione artistica e culturale, generando “icone” del progetto italiano, a loro volta inneschi sia di un fiorentissimo mercato sia di uno sfrenato collezionismo». Ci siamo. Perché è così: questi oggetti e il loro “sistema” complessivo (ricordando Baudrillard e Bachelard), ben lungi dalle vacue scorciatoie dello storytelling, si sono costituiti dapprima come una sostanza reale, verificabile (forma-funzione-dettato estetico inscindibili) e poi sono diventati anche un portato emozionale, che altri Paesi non hanno mai avuto (ovvio che esiste tradizione manifatturiera dappertutto, ma chi ha mai sentito parlare di specificità del Made in Romania o del Made in Belgio, con tutto il rispetto: e sono solo due Stati a caso).

Ma non solo: perché se Dellapiana va in fondo alla questione, individuando addirittura nel Rinascimento il momento nel quale, forse per la prima volta, si è percepita una linea progettuale italiana (senza che l’Italia di fatto esistesse), è poi nel Novecento che gli oggetti italiani diventano un unicum vero e proprio. Mischiano, come per miracolo, e difficilmente spiegabile, l’altissima tradizione artigianale con la voglia di sperimentazione. Se nell’Expo di Chicago, fine Ottocento, l’immagine dell’Italia erano ancora le gondole veneziane (cosa c’è di più folkloristico?), già negli anni 20 (e grazie a fenomeni come la Scuola di Monza, le esposizioni parigine anche targate dall’estetica fascista, il futurismo, artistico e produttivo), la situazione era diversa, di estremo interesse e rilancio. La prova sono, per esempio, le Triennali, fulcro e vetrina della nostra inventiva. Ciò che, nel secondo dopoguerra, poi, consente il dilagare del modo progettuale e produttivo italiano, il cosiddetto «genio»: sarebbe inutile qui elencare le icone, ma dalla Superleggera di Gio Ponti (un vero deus ex machina per la nostra immagine globale), alla creatività brianzola, dalla Arco all’Olivetti, fino all’estremo Memphis o, appunto, alla Vespa, l’Italia ha marcato il campo: ed è diventata ciò che è (o, forse, ciò che era). Con momenti salienti, come lo showroom Olivetti a New York (quando Nivola e BBPR mostrarono che l’Italia era design preistorico e futuro) fino alla memorabile mostra al Moma, curata da Ambasz, di cui ricorrono i 50 anni, che, si spera, non siano passati invano.

«Il Made in Italy è», dagli anni 80 del secolo scorso, scrive in maniera molto significativa Dellapiana, «un brand globale e globalmente riconosciuto, che porta indubbi effetti positivi, ma che tende anche a ingabbiare progettisti e mercato in un cliché ultrasperimentato, da cui sarà molto difficile affrancarsi». La scommessa, per tutto il sistema del design, dell’industria, e della nuova cultura italiana parte – purtroppo e per fortuna – da qui. Ora sì, che ci vuole genio italico.

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