Venezia, la sottile linea russa. Il premio Oscar Gibney racconta il suo Citizen K
L’intervista al premio Oscar Gibney che racconta il suo «Citizen K» sull'oligarca Khodorkovsky, in esilio a Londra dopo la prigione. «Russi e americani si somigliano perché sono affascinati da uomini forti come Putin e Trump»
di Cristina Battocletti
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Alex Gibney con i suoi documentari ha sempre indagato la società americana, facendo incetta di candidature e premi, dall’Oscar per “Taxi to the Dark Side” (2007) agli Emmy awards per le inchieste sullo scandalo finanziario di “Enron” (2005), su Chiesa e pedofilia (“Mea Maxima Culpa: Silence in the House of God”, 2013) e sulla new economy (“The Inventor: Out for Blood in Silicon Valley, 2019”).
Con “Citizen K” , il regista newyorkese si è immerso in un lungo viaggio che lo ha portato tra l’Europa, Mosca e la Siberia per seguire la saga dell’oligarca russo Mikhail Khodorkovsky.
Un altro continente, ma lo stesso fil rouge. «Mi interessa la sottile linea che separa chi usa il potere e chi ne abusa. Khodorkovsky rientra in entrambe le categorie. Capisce il potere molto bene e ha una grande abilità nell’analizzare le situazioni, ma è talmente determinato, che gli è capitato di perdere il senso del limite o del dovere che sarebbe necessario avere».
Figlio di due ingegneri, cresciuto nella povertà, Khodorkovsky è stato un enfant prodige della finanza spregiudicata degli anni Novanta, da fondatore di una delle prime banche private in Russia, a magnate del petrolio, secondo un accordo sottobanco con altri oligarchi con cui si è spartito il bottino di una nazione a pezzi, e il sostegno di Boris Eltsin al Cremlino.
Fu condannato, sotto il governo Putin, nel 2003, a dieci anni di carcere per frode ed evasione fiscale. «Khodorkovsky mi è stato presentato da due dei produttori di Citizen K, John Battsek e P.J. van Sandwijk (gli altri sono lo stesso Gibney, George Chignell e Erin Edeiken, n.d.r.). Mi ha molto impressionato come individuo, anche se la sua epopea per me è stata un pretesto per comprendere la storia della Russia dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Vi ho messo piede per la prima volta nel 1972, viaggiando su un treno in cui si faceva propaganda sovietica in inglese per noi stranieri e il Paese è cambiato in maniera esponenziale: era più povero e molto più rigido». Gibney, classe 1953, grazie all’affaire Khodorkovsky ha analizzato l’altra faccia della medaglia della Guerra Fredda, in cui è cresciuto, riscontrando delle similitudini tra le due nazioni che furono nemiche.
«Americani e russi hanno un punto in comune: la fascinazione per gli uomini forti. La gente in Russia sa che Putin non si comporta correttamente, ma se ne disinteressa perché dà stabilità al Paese. In America è un po’ diverso: alcuni apprezzano Trump, per il suo lato truffaldino; piace loro il fatto che non abbia rispetto per la verità e che rappresenti la forza pura».
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L’intervista, su cui si impernia il documentario, è stata girata tra Londra, città in cui Khodorkovsky vive in un esilio dorato, contando su un patrimonio di 500 milioni di dollari messi in salvo nonostante la confisca in Russia dei suoi beni, e la Germania, Paese che ha fatto molto per la sua liberazione. Dopo aver scontato dieci anni in una galera siberiana, il magnate è stato sottoposto a un ulteriore processo in cui gli si contestava il furto del petrolio prodotto dalla sua compagnia, a cui è sfuggito in virtù della “grazia” concessa da Putin, messo alle strette dalla politica internazionale che minacciava di disertare le Olimpiadi di Soči del 2014. “Citizen K” è il ritratto di un uomo impenetrabile, che non tenta di nascondere o edulcorare il suo passato. «Khodorkovsky non guarda indietro e non conosce i codici del politically correct, ma credo che sia stato ragionevolmente onesto nel raccontarsi».
Nel notevolissimo materiale archivistico che Gibney intreccia con le dichiarazioni dell’oligarca, vi è lo spezzone di in un’intervista, realizzata negli anni ’90, quando Khodorkovsky affermava con orgoglio e vigore davanti alla telecamera di essere avido.
«Fu un momento storico folle, difficile e brutale per la Russia, che viveva la transizione dal comunismo al capitalismo selvaggio. Khodorkovsky pensava che essere avido come Gordon Gekko, il protagonista di Wall street, fosse una qualità. Non provava alcun senso di compassione verso i tanti connazionali che finivano in miseria, mentre lui si arricchiva. Solo nel periodo della detenzione ha avuto tempo di riflettere sul suo passato».
Nel tempo, l’oligarca ha conservato sul volto un sempiterno sorriso, che sfoderava dopo aver rastrellato, a prezzi da carta straccia, innumerevoli azioni di società pubbliche allo sbando, come davanti ai giudici in tribunale. «Non è un segno di empatia. Sorridere per lui può essere il sintomo di una genuina e deliziosa ironia; altre volte solo l’espressione di chi sta tentando di imbrogliarti o fiutando un affare».
Gibney utilizza più volte la parola gangster . «Mi aiuta a sottolineare la spudorata alleanza tra i politici e gli oligarchi, che approfittarono del clima da far west, dovuto alle lacune legislative, per accumulare senza limiti, permettendosi uno stile di vita assai singolare. Gli uomini del servizio di sicurezza di Khodorkovsky, per esempio, erano dotati di kalašnikov come al tempo di Al Capone, sulla scia di un capitalismo che era e rimane brutale. La Russia di oggi è piuttosto lontana dal diventare un Paese democratico. Le elezioni sono state una farsa, la competizione elettorale una quinta teatrale. Fino a quando non ci saranno stampa indipendente ed elezioni libere e il potere esecutivo non sarà soggetto a quello legislativo e giudiziario, non c’è modo di chiamarla democrazia».
Khodorkovsky, che dall’esilio organizza la dissidenza al regime di Putin finanziando “Open Russia”, una fondazione che promuove attivamente la democrazia e il rispetto dei diritti umani nella madre patria, è diventato un eroe solo recentemente per i russi. «La gente provava risentimento per il modo in cui ha accumulato le sue ricchezze. Ha guadagnato il rispetto di molti russi per aver resistito a un arresto e a una detenzione arbitraria, dopo un processo assolutamente ridicolo. La gente ha capito che il problema non è Khodorkovsky, ma è il Cremlino».
Aveva il modo e il tempo di scappare, salvando all’estero il suo patrimonio. «È un mistero. Ha detto di essere rimasto per proteggere i suoi dipendenti, ma io credo sia stato vittima della propria arroganza. Non credeva che Putin avesse il potere o la volontà di mandarlo davvero in prigione e, se lo avesse fatto, sarebbe durata pochi mesi. Questi erano i suoi calcoli. Khodorkovsky è un duro. Vedeva arrestare pian piano i suoi collaboratori più stretti, ma si è sottoposto a una specie di prova di forza, di scontro ai vertici». In parte vinta, visto che una delle prime qualifiche, che appare sulla rete legata al suo nome, è quella di filantropo.
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