ritratti d’epoca

La storia segreta, tragica e glamour di Audrey Munson, la prima supermodel della storia

di Chiara Beghelli

3' di lettura

Oggi Kendall Jenner e Gigi Hadid, prima di loro Cindy Crawford e Linda Evangelista, e ancora prima Veruskha e Twiggy: la lunga serie delle supermodel ha la loro fondatrice, una bellissima donna vissuta nella sfavillante New York dei primi del Novecento, capace di dare il suo volto alle statue simbolo della città ma anche di morire in un ospedale psichiatrico dopo 65 anni di solitudine. Questa è la storia di Audrey Munson, la prima supermodella. Una storia che ha sorprendenti analogie con quelle delle colleghe contemporanee.

Audrey Munson

Prima di tutto, le origini e il desiderio di brillare nello show biz di una metropoli. Audrey era nata nel Rhode Island nel 1881 e a 17 anni andò a New York con la madre per tentare una carriera a Broadway, iniziata con piccole parti. Come accadde con Gisele Bundchen o Kate Moss, anche lei venne notata mentre passeggiava per la città: a scoprirla fu il fotografo Felix Benedict Herzog, che la fermò mentre faceva shopping con sua madre e le chiese di fare la modella nel suo studio nel Lincoln Arcade Building, fra Broadway e la 65th Street.

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Da lì, le si aprirono le porte della città, una città che stava sorgendo sulla durissima roccia di Manhattan, alzandosi in ambiziosi grattacieli ed espandendosi in enormi piazze. Servivano dee per impreziosirla. Il suo volto classico e la sua personalità fecero presto diventare Audrey “Miss Manhattan”, come la definì la stampa nel 1913, desiderata dai più importanti artisti dell’epoca, come Gertrude Vanderbilt Whitney e Daniel Chester French.

Lo Straus Memorial a New York

Oltre 60 sculture a New York, ma non solo, avevano il suo volto e il suo corpo, dal Metropolitan Museum of Art allo Straus Memorial di Straus Park, dedicato agli Straus, proprietari dei magazzini Macy’s morti nel naufragio del Titanic, fino alla statua di Pomona nella Pulitzer Fountain, vicino al Plaza Hotel. Alexander Stirling Calder la scelse per decine di sculture esposte alla Panama–Pacific International Exposition, motivo per cui Audrey fu anche chiamata la “Panama–Pacific Girl”.

Come accade anche oggi, la fama di Audrey la portò presto dagli atelier al cinema: partì dunque per gli studios di Santa Barbara, in California, e lì nel 1915 fu la prima attrice ad apparire nuda in un film, “Ispiration”, dove interpretava ciò che era stata fino ad allora, cioè la musa di uno scultore. Girò altri tre film, di cui solo uno è giunto fino a noi, “Purity”, del 1916, scoperto per caso nel 1993 a casa di un collezionista a Parigi.

Audrey sul set di “Inspiration” (1915)

Tuttavia, la carriera nel cinema la deluse e tornò a New York, dove proseguì il suo lavoro di modella, ma non con lo stesso afflato di prima. Nel 1920 si trasferì nella più modesta Syracuse, sempre con la madre, e iniziò a raccontare la sua vita in puntate sull’Hearst’s Sunday Magazine, approfittando anche per denunciare temi oggi cruciali come la disparità salariale e le molestie sessuali. Uno scandalo, però, avrebbe presto segnato la sua vita: tornò ad abitare a New York, al 164 West 65th Street, di proprietà di Walter Wilkins, che si inanmorò di lei e che per poterla sposare uccise la moglie, Julia. Audrey e la madre lasciarono New York, la polizia diede loro la caccia, Audrey negò ogni coinvolgimento, Wilkins venne condannato alla sedia elettrica.

Segnata dalla fine della sua carriera, il 27 maggio del 1922 Audrey tenta il suicidio. Seguirono anni di oblio, finché nel 1931, a 40 anni, viene ricoverata al St. Lawrence State Hospital di Ogdensburg, New York, dove riceve la diagnosi di depressione e schizofrenia. Lì resterà per 65 anni, senza ricevere visite, senza parlare con nessuno dei suoi anni dorati, finché nel 1984 una lontana nipote, Darlene Bradley, la trova e inizia a raccontarne la storia.

La storia, glamour e tragica, di questa bella ragazza americana finisce nel 1996, quando lei è ormai ultracentenaria. Non esistono sue immagini da anziana, di lei restano solo i ritratti in bianco e nero di una giovane di successo e dal viso volitivo. Sarà sepolta nel cimitero di New Haven, senza una lapide, dopo aver posato per tanti monumenti.

La storia di Audrey Munson è stata raccontata da James Bone in “The Curse of Beauty” (Simon & Schuster, 2016), da Andrea Geyer in “Queen of the Artists' Studios: The Story of Audrey Munson” (2007), da Diana Rozas e Anita Bourne Gottehrer in “American Venus: The Extraordinary Life of Audrey Munson, Model and Muse” (1999, Princeton Arch. Press). Qui anche un video che riassume la sua storia.

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