La svolta dell’Arabia Saudita di Bin Salman resta a metà del guado
Le autorità snocciolano numeri sui traguardi già raggiunti, ma gli sviluppi sono meno convincenti. Ferma alle fasi iniziali la megalopoli smart, Neom
di Alberto Magnani
3' di lettura
Da un lato le ambizioni di trasformare l'economia e la società saudite, accelerando l'emancipazione dalla dipendenza dal greggio. Dall'altro, in parallelo, le opacità di un'autocrazia accusata di violare i diritti umani e sopprimere il dissenso. È il doppio binario percorso da Mohammed Bin Salman, principe ereditario dell'Arabia Saudita, protagonista di un'ascesa rapidissima sulla scena nazionale e internazionale dai tempi dell'insediamento al trono del padre, Re Salman.
La strategia per affrancarsi dal petrolio
Sul primo versante, «Mbs» si è intestato l'agenda di diversificazione e apertura di un'economia retta sulle entrate petrolifere. Il piano è racchiuso nella strategia Vision 2030, lanciata nel 2016 dallo stesso Bin Salman e scandita da una tabella di marcia che dovrebbe rigenerare la produzione saudita in meno di due decenni. La visione di Riad si incardina sui tre pilastri di una società «vibrante», un'economia «prospera» e una nazione «ambiziosa», declinati in 27 obiettivi di settore e 96 obiettivi strategici.
I progetti in cantiere, o già in atto, vanno dal potenziamento della ricerca scientifica a quello dell'industria del turismo, dalla spinta su fintech e intelligenza artificiale a investimenti massicci sulle energie rinnovabili: un cambio di passo drastico, in un mercato dove greggio e gas naturale incidono su oltre il 30% di un Pil cresciuto di quasi 10 punti percentuali nel primo trimestre 2022. La leva sono le enormi risorse finanziarie nelle casse di Riad, motore di un'accelerazione che si farà ancora più critica sul breve termine.
Investimenti sotto le attese e progetti in stallo
A inizio 2021 lo stesso Bin Salman aveva annunciato che il Public investments fund, il fondo sovrano saudita, avrebbe investito l'equivalente di 40 miliardi di dollari l'anno per sostenere la diversificazione dell'economia domestica. Lo scorso anno il bilancio si è fermato intorno ai 22 miliardi di dollari, anche se il principe erede ha ribadito l'obiettivo di una cifra pari al doppio già nel 2022. Le autorità saudite snocciolano numeri sui traguardi già raggiunti grazie alla «Vision», ma gli sviluppi sono meno entusiasmanti di quanto appaia dagli annunci.
Maxi-progetti come Neom, la megalopoli «smart» da 500 miliardi di dollari, sono fermi alle battute iniziali. I flussi di investimenti esteri sulla diversificazione non sono andati, nel 2020, oltre all'equivalente di 5 miliardi di dollari. Riad ne aspettava almeno il doppio. «Il progetto di diversificazione ha raggiunto un'accelerazione notevole e l’Arabia Saudita sta cercando partner a tutto tondo – spiega Armando Sanguini, senior advisor del centro studi Ispi – Ma finora non ha portato a grandissimi risultati».
Le violazioni dei diritti umani e l’ambivalenza internazionale
Non è l'unica ombra su Riad. Le riforme economiche si sono accompagnate all'apertura internazionale e a concessioni sui diritti civili, incluse misure di bandiera come il diritto di guida per le donne e una maggiore spinta sull'occupazione femminile. Ma la ventata «liberal» si scontra con le accuse di una gestione interna ben diversa.
Human Right Watch, una Ong statunitense, ha rilevato una «seria escalation» dei violazioni di diritti umani dal 2017, anno di insediamento di Bin Salman. I casi documentati vanno dall'arresto di oppositori alla tortura, fino all'episodio che ha incassato più risonanza su scala globale: l'assassinio nel 2018 del giornalista Kashoggi, firma saudita del Washington Post, in un'operazione che l'intelligence statunitense ritiene «approvata» dallo stesso Bin Salman.
Il presidente americano Joe Biden aveva ostentato una linea di fermezza, classificando l'Arabia Saudita come un paese «di pariah» e raffreddando i rapporti bilaterali. Oggi sembra aver prevalso la Realpolitik: Biden incontrerà le autorità saudite a luglio, facendo seguito alla visita di fine maggio del ministro degli Esteri russo Lavrov.
La ragione dei due colloqui è la stessa, il petrolio: la Russia voleva confermare la collaborazione con Riad nel vivo della crisi ucraina; gli Usa spingono su un aumento della produzione di barili sauditi, per stemperare la fiammata inflazionistica che incalza il mercato americano. Bin Salman si sta mantenendo in bilico fra i due: «L'Arabia Saudita ha un rapporto pluridecennale con gli Usa, ma non ha nessuna intenzione di alterare quelli con Mosca – dice Sanguini – Ci sono diversi paesi che non hanno interesse a entrare nel conflitto fra i due. È il suo caso».
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