jackson hole e le politiche dei cambi

La svolta della Fed mette alla prova i rapporti con Bce

di Giovanni Tria

Il presidente della Fed, Jerome Powell (Reuters)

4' di lettura

Un anno fa, nell’agosto 2019, al meeting annuale di Jackson Hole nel Wyoming, l’allora governatore uscente della Bank of England, Mark Carney, parlando davanti alla consueta platea di banchieri ed economisti, allora in presenza, affermò, con un discorso che fece scalpore, che la dipendenza del mondo dal dollaro Usa non era più sostenibile.

E invitava il Fmi a farsi carico di aprire la strada verso un nuovo sistema monetario e finanziario internazionale basato su più valute o, meglio, su una moneta globale digitale. L’obiettivo posto era quello di assicurare le economie emergenti rispetto a possibili deflussi distruttivi di capitali in dollari e rimuovere il loro bisogno di accumulare un eccesso di riserve in dollari, la cui conseguenza è la tendenza ad esacerbare l’incertezza e gli effetti deflazionistici, particolarmente dannosi quando vi è un disallineamento tra le fasi cicliche americane e degli altri Paesi.

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L’analisi di Mark Carney partiva dalla constatazione che non sia più vero che un regime di cambi flessibili sia la soluzione per permettere ai singoli Paesi di assorbire gli shock globali e di mantenere stabili i livelli della produzione e dei prezzi interni mediante una politica monetaria flessibile. L’aumento dell’integrazione economica e produttiva globale, anche attraverso lo sviluppo delle catene internazionali del valore, ha determinato, infatti, una crescente sincronizzazione dei movimenti dei prezzi alla produzione nei vari Paesi. Ciò deriva dalla crescente rigidità dei prezzi internazionali denominati in dollari rispetto alle fluttuazioni delle altre valute, per il fatto che il dollaro rappresenta la valuta di fatturazione di metà degli scambi internazionali, circa cinque volte la quota Usa nelle importazioni globali e tre volte la sua quota nelle esportazioni globali. La conseguenza è che il deprezzamento di una valuta rispetto al dollaro scoraggia le importazioni, rendendo i beni e servizi prodotti all’estero più costosi in termini di valuta domestica, ma non ha effetti sui prezzi delle esportazioni in dollari e quindi ritarda l’aggiustamento (in aumento) delle quantità esportate causando solo maggiori profitti in valuta domestica per gli esportatori. Ovviamente accade il contrario quando una valuta si apprezza rispetto al dollaro: l’effetto sui prezzi in dollari delle esportazioni sarà minimo e gli esportatori del Paese con la valuta rivalutata (come accade oggi in Europa e altri Paesi) dovranno ridurre i profitti in valuta nazionale, ottenendo una valuta svalutata rispetto ai costi inalterati in valuta domestica, e senza riaggiustamenti quantitativi degli squilibri commerciali. Il risultato è che la crescita globale risente fortemente di ciò che accade al dollaro a seguito delle vicende economiche e delle politiche monetarie americane.

D’altra parte, proprio per limitare gli effetti richiamati, di fatto era consueta una consultazione tacita, in particolare tra chi guidava la Bce e la Fed, allo scopo di stabilizzare i cambi. Soprattutto a seguito degli sbalzi del valore del dollaro che misero in difficoltà vari Paesi emergenti, con contraccolpi globali, a seguito dell’adozione da parte della Fed delle politiche di “quantitative easing” con cui risollevò l’economia americana dopo la grande crisi.

Il mondo è cambiato dalla riunione, in presenza, di Jackson Hole dell’anno scorso alla riunione in streaming di quest’anno. Causa Covid, tutti i grandi Paesi avanzati sono in profonda recessione, come lo sono in varia misura Paesi emergenti e Paesi in via di sviluppo, e le politiche monetarie sono tutte ultra-espansive. In questo contesto, il commercio internazionale si è bloccato essenzialmente a causa dello shock di offerta determinato dalla pandemia, e il deprezzamento del dollaro di questi mesi ancora non fa sentire effetti sostanziali sul commercio internazionale. Tuttavia, l’annuncio, in streaming, da parte del capo della Fed Jerome Powell agli altri governatori delle banche centrali che cambieranno gli obiettivi della politica monetaria americana avrà delle conseguenze. La Fed ha dichiarato che l’obiettivo occupazione prevarrà sull’obiettivo di controllo dell’inflazione. Non si è trattato solo di prendere atto che l’inflazione non è più dipendente dal tasso naturale di disoccupazione del singolo Paese e che quindi la politica espansiva monetaria non si fermerà di fronte al riassorbimento dell’attuale disoccupazione americana, come avvenne in passato. Dichiarando che la politica di tassi bassi e di espansione della liquidità continuerà a lungo anche se il tasso di inflazione dovesse superare la soglia del 2%, la Fed annuncia che andrà per la sua strada guardando solo al perseguimento della massima occupazione.

In questo modo si conferma che stiamo entrando in un territorio ignoto. Non tanto perché non sappiamo come si potrà rientrare dalle politiche monetarie ultra-espansive di tutto il mondo, ma perché appare evidente che ci si allontana dall’idea che sia necessario un coordinamento internazionale delle politiche macroeconomiche, monetarie in primo luogo, per uscire dalla crisi globale causata dalla pandemia. Al contrario, ogni grande Paese andrà per conto proprio, guardando al proprio interno e senza considerare i contraccolpi esterni sui cambi. Non sappiamo quali siano oggi le consultazioni tra Bce e Fed su come mantenere una relativa stabilità dei cambi, ma è chiaro che se si profila una divergenza tra le politiche monetarie si porrà il problema. Ritorna, quindi, di importanza il problema posto l’anno scorso da Marc Carney, riprendendo una lunga tradizione di teoria economica: è difficile contenere squilibri globali se come moneta internazionale è usata una valuta nazionale che riflette le esigenze di politica interna del paese emittente. Soprattutto se non vi è un esplicito o implicito coordinamento internazionale.

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