Dolomiti

La tempesta Vaia tre anni dopo: una generazione perduta nel bosco

Un bilancio a tre anni dalla tempesta che ha squassato Trentino e Bellunese

di Piero Fornara

Recupero del legname sul Monte Bedolè in Primiero, fonte ufficio stampa della Provincia autonoma di Trento (ottobre 2021)

6' di lettura

Sono passati tre anni. La furia devastatrice della tempesta Vaia sulle Dolomiti negli ultimi giorni dell’ottobre 2018 – specialmente la notte di lunedì 29 – nel racconto di un valligiano di Moena (in Trentino) ci fa pensare a un inquietante film di fantascienza divenuto realtà. Dopo tre giorni di piogge incessanti, c'è verso sera una pausa di calma piatta, un silenzio irreale. Poi comincia il vento, che aumenta man mano di intensità. Il sibilo diventa un urlo, che si fa sempre più forte. Viene a mancare la luce elettrica, non funzionano più i telefoni fissi e nemmeno i cellulari.

I meteorologi spiegheranno che alle raffiche di scirocco sono seguite le folate del maestrale, fino a una velocità di circa 200 chilometri orari (causando perfino la rottura di alcuni anemometri). A Venezia l’acqua alta raggiunge un picco di marea di 156 centimetri e per far defluire l'Adige in piena nel Lago di Garda viene aperta la galleria di Torbole (un canale scolmatore di 10 km. che viene utilizzato in caso di pericolo di inondazioni).

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Il raro fenomeno meteorologico, oltre a Trentino e provincia di Belluno, colpisce in misura più limitata anche l’Alto Adige, la Lombardia e il Friuli Venezia Giulia. Scoperchiati i tetti di alcune case, abbattuti ponti e distrutti circa 42.500 ettari di bosco, di cui quasi 20 mila in provincia di Trento, più di 12 mila in Veneto. La stima degli alberi abbattuti è di ben 14 milioni: visti dagli elicotteri della Protezione civile o dei servizi forestali locali, gli abeti sembrano tanti bastoncini dello Shangai sparpagliati per terra.

La tempesta ha sradicato soprattutto gli abeti rossi, mentre hanno resistito meglio abeti bianchi, pini, larici e piante latifoglie, avendo radici che vanno più in profondità. Complessivamente i danni sono stati valutati intorno ai 3 miliardi di euro. Purtroppo il maltempo ha causato alcune vittime, poche per fortuna, ma ogni perdita di vita umana è una tragedia.

Fiemme e Fassa: le manifestazioni in programma

In questi giorni, fino al 31 ottobre, nelle valli trentine di Fiemme e Fassa sono in programma incontri con esperti, escursioni, mostre e concerti per tracciare un bilancio e guardare al prossimo futuro, mentre sta per aprirsi a Glasgow la conferenza Cop26 sul cambiamento climatico globale. «Tre anni - scrivono i promotori dell'iniziativa - segnati non soltanto da Vaia, dagli interventi di ripristino, taglio del bosco ed eventuale piantumazione, ma anche dalla pandemia. Due crisi (ambientale e sanitaria) da cui ripartire per una rinascita consapevole e rispettosa dei ritmi naturali».

C'è ancora un dettaglio da spiegare: perché si dice “tempesta Vaia”? In Europa si può dare un nome di persona a un evento atmosferico: viene assegnato fin dagli anni '50, a pagamento (tramite una lista alfabetica dei nominativi prenotati), dall’Istituto di meteorologia dell’Università libera di Berlino. Nel nostro caso si tratta della signora Vaia Jakobs, dirigente di un gruppo multinazionale di materassi, ricevuto come insolito regalo da parte del fratello.

Energie e cuore per la rinascita

«Le ferite che il nostro territorio ha subito quella notte di tre anni fa sono ancora in parte visibili - ha dichiarato l'assessora alle Foreste della Provincia autonoma di Trento Giulia Zanotelli – ma per i risultati raggiunti va rivolto un grazie sincero a tutti coloro che hanno messo in campo energie e cuore per la ricostruzione. Nemmeno l’emergenza Covid ha frenato l'impegno sul campo ». Con riferimento al Trentino, precisa Zanotelli «per lo stoccaggio dei tronchi si sono realizzati 88 piazzali, su una superficie di circa 21 ettari e l'83% degli schianti di alberi è stato avviato all'utilizzazione, attivando più di 1.250 cantieri forestali».

Non è agevole invece fare una stima complessiva per tutte le aree colpite dalla tempesta Vaia, ma si può ritenere che sia stato recuperato e venduto dai due terzi ai tre quarti del legname. Una parte degli alberi caduti rimarrà nei boschi, perché si trova in zone montane interne, spesso in pendii poco accessibili dai mezzi meccanici: lo si può notare, ad esempio, anche risalendo in auto la Val di Fiemme ed entrando nella Val di Fassa (tra i comuni di Predazzo e di Moena), come anche camminando a mezza costa o tra le malghe nella stessa zona. Ripristinate le strade, non soltanto quelle asfaltate, ma anche buona parte di quelle forestali, restano ancora inagibili diversi sentieri numerati per gli escursionisti o per le semplici camminate dei villeggianti. Ma alcuni itinerari non saranno più percorribili e ne saranno tracciati dei nuovi; in alcune zone il paesaggio dolomitico è visibilmente cambiato.

Dolomiti, la tempesta Vaia tre anni dopo

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Ritorno al Lago Carezza

Come esempio si può citare il rinomato Lago di Carezza, in provincia di Bolzano, ma quasi al confine linguistico italo-tedesco: la Val di Fassa si raggiunge scendendo dal vicino Passo di Costalunga. Così lo descriveva con entusiasmo nel 1908 il giornalista e scrittore Karl Felix Wolff nel suo volume sulla grande strada delle Dolomiti, ultimata in quegli anni (il suo libro è stato pubblicato di recente in italiano dall'Istituto culturale ladino di San Giovanni di Fassa): «Sapevamo che le abetaie selvagge della grande foresta di Carezza lo nascondono, sapevamo che le guglie del Latemar si specchiano sulla sua superficie, solo che non lo potevamo ammirare. E ora lo abbiamo raggiunto, quel lago di eterna bellezza». Ma dopo la tempesta Vaia il paesaggio non è più lo stesso: forse non se ne rende conto il visitatore (arrivano un po' da tutto il mondo) che per la prima volta si affaccia a guardare il lago dalla terrazza in legno, poco dopo l’uscita del breve tunnel pedonale, ricavato sotto la storica strada delle Dolomiti. Ma basta volgere lo sguardo verso destra per scoprire le zone dove non ci sono più alberi oppure dove se ne vedono alcuni in fila su un poggio, così mal ridotti che ricordano il celebre Spelacchio, l'abete di Piazza Venezia a Roma del Natale 2017, rinsecchito ancora prima di venire decorato.

Possiamo parlare di una “generazione perduta” nel bosco? Pongo la domanda a Giorgio Messina, direttore dell'Ufficio distrettuale forestale di Cavalese (competente per Fiemme e Fassa): «Nel bosco avremo già nei prossimi anni nuovi alberi, ma prima cresceranno le piante latifoglie e solo dopo le conifere; per vedere alberi grandi come gli abeti e i pini abbattuti ci vorranno forse cento anni». Fra l'altro, già trent'anni fa il non dimenticato Mario Rigoni Stern (scomparso nel 2008) aveva riconosciuto che, finita la Grande guerra, fu un errore ripiantare boschi monospecie e coetanei di abete rosso (che tutti conosciamo come “l'albero di Natale”), perché fragile nelle radici e quindi più soggetto alle inclemenze stagionali, oltre che attaccabile dai parassiti e dalle malattie fungine. Da qui anche la necessità di produrre una maggiore quantità di piante latifoglie di corredo come tiglio, acero e sorbo, della messa in sicurezza di fiumi e torrenti, della manutenzione diffusa di alvei e versanti, oltre che della realizzazione di nuove opere di sistemazione idraulica e forestale.

Allarme bostrico per l'abete rosso

La nuova sfida, spiegano i tecnici della provincia di Trento, «è ora rappresentata dal contrasto alla diffusione del bostrico: la presenza di questo insetto endemico, che appare in crescita in tutta Europa, prosegue soprattutto nella parte orientale della Provincia, dove la popolazione di abete rosso sopravvissuta alla forza distruttrice del maltempo sta mostrando sempre più frequentemente i tipici segni della malattia: ingiallimento e arrossamento della chioma». Il dottor Messina entra più in dettaglio: «Si tratta di un coleottero non più lungo di 4 o 5 millimetri, che si sviluppa nelle piante già morte, soprattutto l'abete rosso, scavando delle gallerie sotto la corteccia che formano un disegno caratteristico – da cui il curioso nome di “bostrico tipografo” (Ips typographus) – attaccando poi anche quelle vive nelle vicinanze».

Nelle zone dove la presenza del bostrico non è ancora forte, l'individuazione degli alberi infestati e il loro abbattimento ed esbosco costituisce la forma più efficace di contrasto, ma se gli abeti malati sono già parecchi, si preferisce lasciarli sul posto, a protezione di quelli sani. «In Trentino – conclude Messina – il bostrico non ci era sconosciuto, ma non avevamo mai avuto una diffusione così ampia; per l'esperienza avuta nei vicini paesi alpini, però, ci aspettiamo che dopo cinque o sei anni dagli schianti degli abeti, si verifichi una progressiva diminuzione delle “pullulazioni” del coleottero, perché subentrano altri insetti predatori naturali del bostrico o delle parassitosi fungine antagoniste».


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